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È la fine del mondo per come lo conosciamo

Novembre 16, 2016

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Erano giorni di agosto caldi ma non soffocanti, avevo un lavoro in stand by, tempo da buttare e una città insolitamente silenziosa fuori dalla finestra. Per ragioni che non ricordo, sono finita a guardare un documentario sul rapimento e la liberazione di Jaycee Dugard, un’undicenne californiana rapita da un maniaco pedofilo e seriale, liberata dopo 18 anni di prigionia grazie ad un caso fortuito ed all’istinto di una poliziotta. Durante la sua prigionia Jaycee ha subito di tutto: stupri ripetuti, privazioni di ogni genere e ha dato alla luce due bambine, da sola, in una tenda montata in un cortile infestato di topi, grazie alle nozioni sul parto che aveva imparato in TV, e prima di avere compiuto 18 anni.
Complice la funzione “potrebbe interessarti anche” di You Tube, e travolta da una spirale di masochistica incredulità, ho guardato anche le storie analoghe di altre bambine, vittime di un destino innominabile, e miracolosamente restituite alla libertà e a quel che rimaneva della loro vita dopo anni di soprusi: Elisabeth Smart, Natasha Kampusch, Michelle Knight, Amanda Berry, Gina DeJesus.

Di queste storie agghiaccianti, il dettaglio che mi è rimasto più impresso è stato il fatto che per tutte ci fosse stata almeno un’occasione in cui avrebbero potuto scappare o farsi riconoscere (erano tutti casi diventati mediatici, le foto di quelle bambine erano state diffuse ovunque e così i loro nomi). Tutte a unc certo punto avevano visto uno spiraglio, una falla nel sistema, una possibilità di uscire dall’incubo e lo avevano ignorato.

La spiegazione che si evince dai documentari e dalle testimonianze è che a un certo punto, forse proprio a causa della giovane età delle vittime al momento del rapimento, quella prigionia era diventata la loro quotidianità, il mondo per come lo conoscevano. Un mondo di cui avevano appreso le regole e a cui si erano adattate. Dentro quella non-vita, l’unica che conoscessero, avevano trovato persino cose belle a cui attaccarsi: i fiori del giardino, un gatto, i jingle degli spot alla tv, i figli che avevano partorito in seguito alle violenze subite.

Tutte quelle ragazzine avevano imparato molto bene le regole da cui dipendeva la loro sopravvivenza e vi si erano adattate per uno spirito di auto conservazione che visto da fuori può sembrare innaturale, assurdo, una contraddizione in termini.
Jaycee, al momento della sua liberazione, come prima reazione aveva cercato disperatamente di coprire e poi di difendere il suo rapitore, cercando persino di depistare la polizia che ormai aveva capito che lei non poteva essere chi dichiarava. Aveva pianto, implorato gli agenti di non fargli del male perché lui era un “uomo buono”.

Martedì scorso gli Stati Uniti hanno votato per eleggere il loro Presidente e sappiamo tutti come è andata a finire. Sappiamo anche che il 43% delle americane ha votato per Trump nonostante il suo palese ed esibito sessismo e nonostante le accuse di molestie sessuali che gli sono state mosse pubblicamente da donne autorevoli e rispettabili.

Contro di loro (e contro tutti gli elettori di Trump, a onor del vero, ma forse quella delle donne è stata la posizione più dibattuta perché la più difficile da accettare) si è scagliato tutto quel mondo convinto di essere dalla parte giusta, e che probabilmente lo è, con un’acrimonia che però stride con i valori di cui si dichiara portatore.

Io credo che quelle donne abbiano votato Trump non perché non abbiano compreso il sessismo delle sue uscite, non perché non abbiano creduto alle accuse di molestie, ma perché semplicemente, nella loro esperienza di vita, sono giunte ad una pacifica conclusione: gli uomini sono fatti così.

Gli uomini sono cacciatori, è normale che allunghino le mani.
Gli uomini sono  al potere e se insieme a quello hanno pure i soldi, questo fa di loro degli “ottimi partiti”.
Non è rilevante che un uomo ci provi con una ragazza, mentre la moglie è incinta e grassa come una balena, fintanto che a quella moglie è in grado di garantire una vita più che dignitosa, finché le regala diamanti e bei vestiti.

Gli uomini sono fatti così.

Quelle donne non vivono sulla luna, vivono nel mondo e il mondo è questo. I loro padri sono così. I discorsi da spogliatoio su chi tromberebbe chi li hanno sentiti fare nei crocicchi di maschi nei corridoi delle scuole superiori, e magari li hanno criticati ad alta voce.

Ma gli uomini sono fatti così.

Hanno sentito spacconate peggiori di quelle di Trump, dopo il pranzo di Natale e numerosi bicchieri di vino, biascicate senza nemmeno il sospetto che fossero inopportune da quei maschi seduti soli ad un tavolo che loro stavano sparecchiando, per poi trovarsi in cucina, tra il lavello e la dispensa, a sbuffare per quei discorsi orecchiati di là in sala da pranzo. E poi hanno fatto spallucce e sono tornate a sedersi anche loro, rimproverandoli bonariamente e amandoli come e più di prima, quegli uomini.

Gli uomini sono fatti così.

Quelle donne sono lo specchio di un mondo che è ancora e in cui sono calate molto più di noi che su Facebook facciamo discorsi alti e le trattiamo come cretine, mentre l’algoritmo nasconde noi a loro e loro a noi, chiudendoci nelle nostre rispettive bolle di pensiero.
Io sono profondamente convinta che siamo noi quelli dalla parte del giusto, e lo sono perché quel giusto sarà molto conveniente anche per loro che ancora non lo sanno.

Il loro è il mondo che è. Il nostro è il mondo che sarà, forse. E le chance che abbiamo di trasformare quel forse in un certamente, dipendono da quanto saremo in grado di parlare a quelle donne senza insultarle. Dipenderà dalla nostra capacità di mostrare che il mondo potrebbe essere diverso, che dovrebbe essere diverso perchè converrebbe a tutti che lo fosse.
Quello che non ci darà alcuna chance di portarle dalla nostra parte, invece, è passare come uno schiacciasassi sui loro padri e mariti, sulle loro vite intere, spazzandole via come fossero non degne.

Nessuno si sarebbe mai sognato di rimproverare Jaycee Dugard per non avere scritto una mail alla polizia, quando poteva farlo, lasciata sola davanti ad un computer da cui si occupava degli affari del suo rapitore. Nessuno avrebbe avuto l’ardire di pensare che fosse felice di quella vita, che forse se la stava meritando. Non era compito di Jaycee Dugard trovare la sua via per la salvezza: era compito di chi era fuori, libero, di trovarla e liberarla, e se non l’avessero mai trovata, la colpa sarebbe stata loro, non sua.

Jaycee Dugard, le donne che hanno votato Trump e quelle che non lo hanno votato perché abitano dall’altra parte del mondo ma che lo giustificano e ammirano, sono donne che hanno capito quali sono le regole del gioco e hanno trovato un modo per vivere degnamente dentro quelle regole: le uniche a disposizione.

Il giorno dopo le elezioni mi risuonava in testa quella canzone dei REM che fa “It’s the end of the world as we know it” e pensavo davvero lo fosse, “la fine del mondo per come lo conosciamo”.
Poi ho realizzato che non è per niente la fine del mondo che conosciamo, semmai è la fine dell’illusione che quel mondo esista già.
Il voto a Trump, le palizzate alzate dalle donne contro il congedo di paternità obbligatorio, la difesa di un ruolo di madre-moglie-angelo del focolare insostituibile e percepito come a rischio a causa della propaganda benpensantista, sono tutti estremi tentativi di difesa del mondo come lo conosciamo, come lo abbiamo sempre conosciuto tutti, e che sta cominciando a scricchiolare. Questa volta hanno vinto le palizzate: lo status quo è stato difeso in America e lo è stato qui tutte le mille volte in cui le riforme sono state ridimensionate, ridotte e poi sono cadute in un dimenticatoio colposo.

Ma sono palizzate di bambù; manca poco e loro lo sanno, per questo sono spaventati.
È la fine del mondo per come lo conosciamo” e potrebbe essere l’inizio del mondo come lo vorremmo noi.
Raccontiamoglielo in un modo che non preveda che abdichino a tutto ciò che conoscono e che le ha fatte sentire bene. Lasciamolo scoprire a loro che staranno meglio dopo, invece di dire loro quanto sono cretine a pensare che valga la pena vivere così.

Trump noialtri lo consideriamo un bifolco e buon titolo, ma sono certa che i suoi figli, sua moglie, i suoi amici e, ultimi ma non meno importanti, i suoi fan, hanno ottime ragioni per volergli bene. Perché se Trump fosse mio padre, gli vorrei bene anche io.

Non è di chi dentro il sistema riesce a rendere la propria vita degna di essere vissuta, felice e persino grandiosa, il compito di ribaltare il banco.

Quindi smettiamola di combatterle, diventiamo loro alleate.

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  • verdeacqua Novembre 16, 2016 at 11:31 am

    brava. condivido tutto!

    • Silvia A. Novembre 22, 2016 at 5:45 pm

      Mi hai pure citata in un tuo post, non potrei esserne più lusingata!
      Grazie Cecilia e auguri chè oggi è il tuo onomastico!
      🙂

  • Elisa Novembre 16, 2016 at 2:37 pm

    Complimenti, pezzo scritto benissimo e che mi ha fatto riflettere.

    • Silvia A. Novembre 22, 2016 at 5:44 pm

      Ciao Elisa, scusa se ti rispondo così tardi. Il tuo commento mi fa tanto piacere.
      A presto!

  • rossella boriosi Novembre 16, 2016 at 6:40 pm

    lucido e vero. Brava

    • Silvia A. Novembre 22, 2016 at 5:44 pm

      Grazie Ros, mi fai sempre felice.