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Il portoghese è una lingua aspra con un cuore gentile

Marzo 20, 2017

praca do comercio

Il portoghese è una lingua dall’involucro aspro ma, sotto la crosta, c’è il latino che la rende gentile.

Capire la natura di questa lingua, equivale a scoprire la natura del popolo che la parla.

Era il Settembre 2003 quando sono arrivata in Erasmus a Lisbona. I miei colleghi di mezza Europa, in meno di un mese dall’inizio dell’anno scolastico, avevano formato gruppi, creato appuntamenti fissi: avevano un bar d’elezione – che io evitavo accuratamente -, si parlavano fra di loro in inglese maccheronico e non sembravano interessati a scoprire i segreti dell’idioma locale. Italiani e spagnoli se la intendevano alla perfezione, complici due lingue che andavano a braccetto. I nordici erano quelli per i quali la lingua risultava più ostica, infatti non l’avrebbero neanche imparata. Molti non ne avevano nemmeno bisogno, visto che in alcune facoltà le lezioni si tenevano in inglese.

Invece io, dopo un primo approccio un po’ ostico, avevo iniziato a familiarizzare con quella lingua aspra.
Dopo qualche settimana riuscivo a capire dove finiva una parola e dove ne iniziava un’altra: un traguardo notevole rispetto alla nebbia dei primi giorni. Avevo individuato alcuni intercalari che ricorrevano, anche se non ne avevo ancora decifrato il senso. Le parolacce me le avevano insegnate Ricardo e Bruno, i due baristi del pub che frequentavo ogni sera. La lezione era stata molto utile ad orientarsi nella parlata di strada:“caralho” e “fodes” erano le esclamazioni che risuonavano di più per le vie del Bairro Alto, specialmente dopo una cert’ora. Isolate quelle, mi ero dedicata con perizia a tutte le altre intorno.
Mi aveva incuriosita subito un’esclamazione che sentivo spesso inaugurare un discorso: “eh pà!”, intraducibile, se non ricorrendo al dialetto. Avevo concluso che fosse assimilabile al “pota” bergamasco, o al “fes” bresciano e avevo deciso che non l’avrei mai usata.

All’università le lezioni che seguivo con più interesse erano quelle serali: il corso di portoghese per stranieri. Andavo come un treno: ogni settimana arrivavo carica di parole sentite, locuzioni da tradurre, e lì riuscivo a metterle in ordine e a collocarle in cassetti della mente, pronte per essere usate non appena fossero state mature. Nel giro di un paio di mesi ero in grado di capire perfettamente il portoghese ordinato della tv ed entro Natale riuscivo a decifrare persino quello di strada.

Per iniziare a parlare ci volle di più: non sono il tipo di persona che si butti di testa nelle cose. Per effetto di un certo perfezionismo, non avrei mai tollerato di aprire bocca ed apparire ridicola, così continuai a lungo ad usare l’inglese in cui mi sentivo sicura.
La pronuncia portoghese, d’altra parte, è complicata. C’erano le nasali, tanto per cominciare. In quasi tutti i sostantivi plurali, nella terza persona plurale dei verbi e in una quantità di altre parole quel dannato accento circonflesso mi costringeva a buttare il suono su per il naso, da cui usciva ridicolo e lontanissimo da quello che cercavo di imitare. Meglio tacere, dunque. Meglio evitare a tutti i costi di dover usare la parola “”, “rana”, in cui la nasale si combinava con un elemento di ulteriore difficoltà inarrivabile per me: la erre a inizio parola, o doppia. Avrei dovuto arrotarla alla francese ma a me, a cui sfugge e scivola sotto gli incisivi persino quella italiana, quell’impresa risultava praticamente impossibile.
Non acquisii la erre arrotata neanche dopo 11 mesi, nonostante gli sforzi profusi, nonostante le decine di prove davanti allo specchio a scandire “Ri-car-d-o”. La compresenza di due erre diverse nella stessa parola, innalzava lo sforzo a vette inarrivabili di difficoltà, su cui neanche il mio innamoramento matto e disperatissimo per il ragazzo che portava quel nome riuscì a issarmi.

La professoressa di portoghese del serale lodava e incoraggiava molto i miei progressi, e quando aveva assegnato come compito a casa di preparare un brano da leggere ad alta voce davanti alla classe, aveva lodato persino quella pronuncia di cui mi vergognavo tanto. Avevo scelto una pagina della traduzione portoghese di “Sostiene Pereira” di Tabucchi: il lungo monologo di Silva, quello in cui parla della “gente del sud” con rassegnazione, invitando Pereira ad accettare la dittatura come una condizione inevitabile: nos obedecemos à quem grita mais, à quem manda”, “noi obbediamo a chi grida di più, a chi comanda”.

Alla fine di quel corso trimestrale avevo iniziato a parlare portoghese anche fuori dalla classe, con sommo stupore di chi mi frequentava abitualmente e, abituato a sentirmi uscire dalla bocca quell’inglese americano vario e accurato, non si capacitava di come mi fosse maturato dentro, in silenzio, un portoghese altrettanto preciso.

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