storytelling

Forma e Sostanza

Aprile 17, 2018

(tempo di lettura: 15 minuti)

Se all’inizio della terza liceo qualcuno mi avesse detto che saremmo diventate migliori amiche, gli avrei riso in faccia: io e Valentina Neri non apparteniamo neanche alla stessa categoria antropologica.
La genetica si è divertita a giocare partite opposte, quando si è trattato di definire le nostre fattezze. Lei è nata bella da genitori brutti, io sono nata brutta da genitori belli: a me l’intelligenza, a mio fratello Edoardo la faccia da schiaffi di mio padre e gli occhi blu di mia madre.
Invece un giorno, senza apparente motivo e per sua iniziativa, Valentina mi si siede accanto sull’autobus che ci riporta al paese dopo la scuola.
«Cosa ascolti?», mi dice, come se parlarsi fosse una cosa normale.
Io ho la musica alta nelle orecchie. Mi levo gli auricolari e le faccio una smorfia come a dire “ce l’hai con me?”. Lei sorride con quella fila di denti che ci potrebbe fare le pubblicità dei dentifrici e indica il walkman in cui sta girando il cd.
«La musica. Cos’è? Si sente fino a qui…»
«Ti dà fastidio?», faccio io.
«No, mi incuriosiva.»
Sorride di nuovo. Ha uno sbaffo di rossetto viola su un canino.
«Sono i C.S.I.», butto là io con aria di superiorità. Lei mi prende le cuffiette senza chiedere, se le infila nelle orecchie e comincia a muovere la testa a ritmo. Poi si abbandona sullo schienale e comincia a far ruotare le braccia una sull’altra a tempo e io provo una fitta di imbarazzo. È “Forma e sostanza”, diocristo, non una hit dance.
Le tolgo gli auricolari e chiedo: «Hai una vaga idea di cosa parli questa canzone?»
«No, ma mi piace. Ha un effetto, tipo, “strobo”. Figo, no?» e ricomincia con quei gesti imbarazzanti di prima. Forse sto arrossendo, allora mi chino e metto il walkman nello zaino. Intanto il pullman è partito e io non ho ancora capito cosa ci faccia questa fighetta disco vicino a me.
«Sei sempre una secchiona?», mi chiede ripescando nella nostra infanzia condivisa quello che dev’essere l’unico ricordo che ha di me.
Non so perché le do corda. Parliamo dei nostri compagni delle elementari: un paio sono in classe con lei, alle magistrali, un paio con me, al classico. Esauriamo i venti minuti di viaggio parlando di niente, poi arriva la sua fermata e scende. Due fighette simili a lei, ma insignificanti, la aspettano sulla panchina, si salutando baciandosi sulle labbra, poi prendono le scalinate di metallo dei bagni comunali e spariscono in spiaggia.

Il giorno dopo succede di nuovo. Gli studenti si assiepano sul piazzale della stazione in un magma confuso. Non è difficile individuare Valentina tra la folla: attorno a lei si forma sempre una cintura di vuoto. Dall’alto del pullman puoi notare un cerchio preciso tra le teste e gli zaini e lei al centro. Le amiche, le gregarie, pendono dalle sue labbra. I ragazzi sbavano ma non osano avvicinarsi: aspettano di essere scelti da lei che invece non guarda nessuno.
La vedo raccogliere la tracolla da terra e buttarsela su una spalla, i capelli setosi fanno la ruota mentre abbandona il gruppo e si incammina verso il pullman.
Pochi secondi dopo è di nuovo seduta accanto a me.
La conversazione è più briosa del giorno prima. Parliamo delle nostre scuole: ginecei asfittici dove è impossibile avere una vita sociale. Io non ne ho molta neanche fuori, per la verità.
«Da noi il rappresentante d’istituto si elegge a crocette, facendo passare un foglio per le classi», dico io.
«Da noi ci sono le suore», ribatte lei vincendo la partita. Ridiamo.
Lei si passa il rossetto viola sulle labbra carnose specchiandosi nel metallo del posacenere attaccato al sedile di fronte. Io guardo il mio riflesso nel vetro del finestrino: ho un brufolo sulla guancia così grosso che si vede anche da lì.
«Parla della società liquida», fa Valentina dopo avere chiuso il suo rossetto. Mi guarda con quegli occhi assurdi, nocciola screziati di giallo. Io ci metto un attimo a capire.
«La canzone di ieri. È proprio figa comunque, mi fai il cd?»
Sarei tentata di chiederle chi gliel’ha suggerita, questa della società liquida. Mi trattengo, ma forse la guardo con sufficienza perché le si incrina la spavalderia.
«Domani te lo porto», dico sorridendo e mi sento pure un po’ stronza.
Lei mi saluta e scende dal bus.

Questa storia continua per un mese e io non chiedo spiegazioni, seppur continui a domandarmi cosa voglia da me. Poi, finalmente, un venerdì capisco. 
Poco prima della sua fermata, mi fa: «Posso venire a studiare da te domani? Ho la versione lunedì e sono una capra in latino, mi aiuti?»
Le scrivo il mio indirizzo su un biglietto che strappo dal diario, l’autobus inchioda, lei mi stampa due baci sulle guance e scende di corsa.
Il giorno dopo, quando le sento suonare il campanello, mi viene il batticuore e mi sento una cretina. Ci mettiamo a studiare in cucina; in casa c’è solo mia madre, che mi mette in ulteriore imbarazzo offrendo “la merendina” alla mia amica. Io traduco, lei cerca le parole sul vocabolario e ci mette tantissimo, è svogliata e la sua testa è evidentemente altrove. A un certo punto si sentono girare le chiavi nella toppa della porta d’ingresso: è mio padre che rientra dalla passeggiata col cane. Valentina scatta dritta sulla sedia dove stava svaccata da mezz’ora, gli occhi annoiati hanno un guizzo. Poi mio padre entra in cucina e lei si ammoscia di nuovo.
«Io ti aiuto, ma tu devi metterci del tuo», protesto, mentre mio padre sparisce in salotto.
«Facciamo una pausa», dice lei mollando la traduzione di un periodo a metà, «voglio vedere camera tua».
La scorto su per le scale, vado verso la mia stanza ma lei si ferma davanti alla porta con la E gigante appiccicata sopra.
«Guarda che quella non è la mia », dico io, ma lei è già dentro.
Si siede sul letto e rimbalza sul materasso col sedere mentre si guarda intorno. Si avvicina alla libreria e legge i titoli dei cd scorrendoli con l’indice. Ne estrae uno: Pink Floyd, “The dark side of the moon”. Lo rimette a posto e apre l’armadio. Prende una felpa con la stampella e tutto, se la avvicina alla faccia e annusa il punto in cui ci sarebbe il collo, se ci fosse dentro una persona. Se ci fosse dentro mio fratello.
«Vale usciamo, se Edo ritorna e ci becca qui son cazzi…»
«Perché, sta per tornare?», chiede con gli occhi che brillano.
«No, oggi dorme fuori», mento io.
Esco per prima e prendo le scale. Lei richiude l’armadio e mi segue in cucina, dove la costringo a finire la versione senza più correggerla quando sbaglia.

Non so se mi roda più il fatto che Valentina mi abbia usata, o che si sia innamorata di quel coglione di mio fratello. Decido di fingere di non avere capito il suo piano e continuo a fare l’amica. Quando mi fa domande dirette su Edoardo, io rispondo in modo evasivo o mento del tutto.
Alla fine si confida: le piace da pazzi, è il ragazzo più bello che ha mai visto. L’ha conosciuto alla Suerte, la discoteca del paese.
«Ci hanno offerto da bere. Era con quel suo amico, sai? Quello che sta sempre con lui, brutto, col nasone…»
«Lo Squalo.»
«Sì, brava, lui. Abbiamo passato ore a bere e chiacchierare, mi ha fissata tutto il tempo, e poi è sparito nel nulla. Ma si fa così?», dice con tono capriccioso da bambina, per sdrammatizzare quanto le bruci che un ragazzo, per una volta, non le faccia da scendiletto.
«Magari era ubriaco e neanche si ricorda di averti fissata», dico io apposta per ferirla, ma non ci riesco. L’ipotesi le fa anzi riacquistare speranza: se non fosse stato ubriaco, si sarebbe innamorato di lei, come tutti.
Mi viene lì per lì un’idea che non so bene dove voglia andare a parare, ma gliela dico.
«Potresti fargli un cd con canzoni super fighe, che gli facciano capire che ti piace, ma senza svaccare, e poi nella custodia gli scrivi luogo e ora per un incontro.»
Qualcosa le si è messo in moto nel cervellino, perché butta i capelli all’indietro, li chiude con due mani in una coda che arrotola stretta sulla nuca mentre fissa un punto nel vuoto.
«E con tuo fratello una cosa così attaccherebbe?»
«Se no non te la proponevo», rispondo io complice.
Lascia andare i capelli che tornano al loro posto con movimenti flessuosi che i miei non sarebbero mai in grado di produrre, neanche piastrati.
«Ok, so cosa scrivergli. Ma con la musica mi devi aiutare tu.»

Per trovare le cinque canzoni giuste ci mettiamo una settimana. Lei mi consegna il biglietto da allegare al cd e mi bacia mille volte su una guancia, davanti a tutti, sul piazzale. Quello che ha scritto è stucchevole, per niente in linea con le canzoni che le ho fatto scegliere. La playlist si apre con “I want you to want me”, cantata dai NoFX.
“I tuoi occhi sono come queste canzoni: una volta che le senti, non ti escono più dalla testa. Sarò al molo venerdì sera, alle sette. Starò aspettando te”.
Mi pervade il senso di disagio profondo di quel primo viaggio in pullman, quando s’è messa a ballare i C.S.I. come fosse techno. Com’è possibile che una persona così ordinaria abbia un’intera classe studentesca ai suoi piedi? Me lo chiedo e mi rispondo da sola.
Incrocio Edoardo due volte quella settimana, ma non gli do il cd. Quando dico a Vale che non l’ho visto diventa aggressiva: «Come cazzo è possibile? È tuo fratello!», e se ne va via seccata, insieme alle sue amiche.
Che presuntuosa cretina. Come se mio fratello fosse lì ad aspettare la liceale di stocazzo, anche se è la più bella del golfo.

Sabato a pranzo siamo tutti a casa, festeggiamo il primogenito che ha passato l’esame di Storia Moderna. Quando finiamo col cibo e le smancerie, io e Edo rimaniamo in cucina a sistemare, da soli. Sarebbe il momento perfetto per dargli il cd, e invece aspetto. Cincischio con i piatti.
«Non è mica vero che hai dato l’esame», lo sfido.
«Che cazzo dici, sei scema?»
«Ho trovato il tuo libretto nel cassetto della scrivania: non ne hai dato neanche uno.»
«E tu cosa ci facevi in camera mia?»
«Non montarti la testa, mi serviva solo una penna per la mia amica…»
«La tua nuova amica bella?», sottolinea l’aggettivo con un gusto sadico. Lo so cosa pensa di me. Mi sale una rabbia dallo stomaco che gli spaccherei un piatto su quella faccia di merda. Mi trattengo, non voglio dargli soddisfazione e intanto suona il citofono.
«È lo Squalo», fa lui, e va ad aprire.
Mauro è amico di mio fratello da sempre. Lo chiamano così per via del naso, che sembra proprio una pinna di squalo rovesciata conficcata su una faccia ossuta, dagli zigomi sporgenti e senza mento, su cui campeggiano due occhi spiritati di un azzurro quasi trasparente. È il ragazzo più brutto che io conosca, ma è molto popolare perché smazza fumo sin dai tempi del liceo.
Entra in cucina e mi saluta con il suo fare nervoso, mentre dondola sulle gambe magre che ballano nei jeans.
«Oh Squalo, sei arrivato giusto giusto per farmi il caffè!», dice mio fratello dandogli una pacca sulle spalle secche. Mauro guarda Edoardo con la devozione che i bruttissimi riservano ai belli, quando non li odiano. Mi viene il dubbio che abbia preso qualcosa, perché sembra troppo schizzato persino per i suoi standard, ma il pensiero mi esce subito di testa perché mi viene un’idea tremenda.
Salgo le scale e recupero il cd con il suo bel pacchettino di carta di giornale e il fiocchetto di corda.
Quando torno in cucina Edo e lo Squalo stanno armeggiando con la moka. Chiedo di fare il caffè anche a me e mi siedo al tavolo con loro. Di solito non cazzeggio intorno ai suoi amici, invece oggi sono gentile con Mauro, ci faccio conversazione spicciola e infatti Edoardo mi guarda storto.
Ci stiamo girando le tazzine in mano per far raffreddare il caffè, quando decido di sganciare la bomba.
«Mauro, ti ricordi della mia amica Valentina? Vi siete conosciuti alla Suerte…»
Lui mi guarda interrogativo.
«Mi ha parlato un sacco di te», aggiungo.
Se io e Vale non apparteniamo alla stessa categoria antropologica, lui e lei a stento si possono ricondurre alla stessa specie.
«Mi ha chiesto di darti una cosa», concludo dando il primo sorso al mio caffè, mentre loro due mi fissano con la tazza a mezz’asta.

Arriva il venerdì dell’appuntamento, io sono a casa e sono in ansia. Non vedrò la faccia di Valentina, né quella dello Squalo quando si incontreranno ma le posso immaginare nel dettaglio. Lei trasfigurerà: la voce le diventerà stridula come quando si incazza con le sue amichette, lo insulterà nel modo spietato in cui denigra chiunque non consideri alla sua altezza. Il modo in cui avrà denigrato anche me, mille volte, prima di sapere che le servivo. Lui diventerà rosso come un anemone di mare, comincerà a dondolare sulle gambe e a passarsi la mano sul cranio rasato, pelo e contropelo. Ne uscirà schiantato, poverino. Mi sento in colpa, Mauro non mi ha mai fatto niente di male.
Tengo le orecchie dritte: se dovesse telefonare a mio fratello per raccontargli com’è andata, sgattaiolerò in camera di mamma e papà e tirerò su la cornetta per origliare. Il telefono però non squilla: i maschi queste cose non le raccontano agli amici, e io mi addormento vestita sul letto.
Passa il week end senza che io sappia niente dell’incontro. Mio fratello non sembra esserne nemmeno al corrente. Forse lo Squalo non gli ha mai detto del biglietto e avrà pensato che lo scambio del cd fosse un modo di mascherare una compravendita. Non sarebbe stata la prima volta che qualcuno lo approccia in modo strano per comprare del fumo.
Valentina non mi chiama, neanche per insultarmi.
Lunedì, dopo la scuola, attraverso il piazzale velocemente per evitare di incrociarla. Salgo sul pullman e da lì la individuo facilmente: apre la folla col suo incedere glorioso, a braccetto con le solite squinzie.
Quando sale sul pullman divento nervosa. Il cuore mi batte veloce nel petto e io fisso un punto fuori dal finestrino, mentre con la coda dell’occhio controllo il corridoio. Alzo la musica. A un certo punto sento la sua presenza accanto a me, spero si sia fermata per lasciar passare qualcuno invece no, rimane lì. Sono costretta ad alzare gli occhi su di lei, in piedi davanti a me, le mani sui fianchi. Una ciocca di capelli le lambisce una guancia e ricade sul seno, formando un ricciolo che punta all’insù.
Mi tolgo le cuffie mentre lei continua a fissarmi.
«Quelle come te passano la vita a cercare di dimostrare a quelle come me che l’apparenza non conta, che a loro interessa la sostanza. Ma non è vero: dareste un braccio per essere belle, per essere guardate. Amica, ti do una notizia: io, se volessi, una cultura me la potrei fare. Tu invece non sarai mai come me, e non c’è proprio niente che tu possa fare in proposito.»
Non riesco a dire niente. Mi rimetto la musica nelle orecchie e vorrei essere indifferente alle sue parole, come penso di apparire con quel gesto incurante. E invece mi pizzicano gli occhi, diventano lucidi. Combatto con le lacrime che si accumulano tra le palpebre che non sbatto, spero che si asciughino prima di precipitare sulla mia felpa, rendendosi evidenti.
Valentina non rimane lì a godersi gli effetti delle sue parole, non le interessano. Lei sa di avere ragione e ora lo so anche io.

Nei mesi che seguono la vedo flirtare con almeno tre ragazzi diversi. Se li rigira come vuole, li stropiccia e li butta via come fazzoletti usati. Il nostro sodalizio è durato quasi due mesi ma nessuno sembra ricordare che sia mai esistito. Io sono di nuovo invisibile, lei è sempre più abbronzata, sempre più nuda nel sole caldo della primavera al mare.
Mi piacerebbe odiarla, invece mi manca.
Tutto è tornato alla normalità, al punto che mi convinco che sia stata una parentesi insignificante per tutti, tranne che per me. Persino lo Squalo non fa mai alcun cenno alla faccenda, e l’unica volta che mi interpella, lo fa per chiedermi della festa di fine anno. Immagino che si prepari a fare lo spesone di fumo e pastiglie da vendere, gli dico che gli porterò un volantino ma poi mi scordo di farlo.

La gente del classico alla festa di fine anno non ci va, per tradizione e per snobismo. La sera della festa la mia classe ha organizzato la contro-celebrazione: un atto di resistenza all’imbarbarimento dei costumi musicali giovanili. Io non sono nello spirito: per la prima volta in tre anni quella cena mi sembra un’attestazione di sconfitta, più che un atto rivoluzionario. Salto il dolce per non perdere l’ultimo autobus che mi riporta al paese.
Arrivo a casa in tempo per incrociare Edo e lo Squalo che escono.
«Andate alla festina dei ragazzini?», chiedo a mio fratello con aria sprezzante.
«Coi ragazzini si fanno ottimi affari», dice lo Squalo con una risatina satanica e nasale, mentre si sfrega indice e pollice a pochi centimetri dalla mia faccia.
Mi sfilano accanto e spariscono nel buio tra i coni di luce di due lampioni. Da casa nostra alla Suerte saranno sì e no dieci minuti a piedi, ci penso mentre cerco le chiavi di casa nello zaino. Infilo le chiavi nella toppa ma non giro.
Non so dire se sia per curiosità o per masochismo, ma voglio andare anche io alla festa. Mi spoglio del giubbotto di pelle, levo la felpa col cappuccio e rimango in canotta nera. Nascondo la felpa dietro un vaso accanto al cancello, mi infilo di nuovo il giubbotto ed esco.

Arrivo alla Suerte ma sono senza biglietto, il buttafuori mi dice che la festa è riservata agli studenti e a chi è in lista. Tiro fuori la tessera dei mezzi e gliela mostro. Siccome dice “abbonamento studenti”, allora lui si convince e mi fa entrare.
Vago per un po’ tra facce familiari, ma non incrocio nessuno con cui abbia abbastanza confidenza per fare conversazione. Un trentenne al bancone mi offre da bere. Che cazzo ci fa un trentenne a una festa così, mi dico, ma intanto mi faccio comprare una birra, lo saluto e mi dileguo tra i corpi che si dimenano in pista. Mi faccio largo tra gente sudata e ubriaca, individuo Valentina che balla sotto una cassa. I suoi movimenti sono quelli che le ho visto fare sul pullman ma, a differenza di allora, qui è al suo posto. Le ciocche sudate le ricadono sulla faccia a ogni colpo di spalle. Muove il bacino in modo sensuale, appollaiata sui tacchi altissimi che fanno sembrare stia levitando nell’aria.
Non ha alcun bisogno di me. Non ha mai avuto bisogno di me: mio fratello le sta ballando accanto, o dovrei dire intorno. Cerca un contatto che lei non gli concede; quando si avvicina, lei gli volta le spalle e continua a ballare mostrandogli il sedere sodo che spinge di qua e di là.
Proseguo fino alle vetrate che portano sulla terrazza. Finisco la mia birra tra coppiette appartate sui divanetti in fibra di plastica intrecciata. Il frastuono del mare sulla scogliera lì sotto copre persino il tum tum nevrastenico della tecno.
Quando rientro individuo lo Squalo in pista, dove prima c’erano Valentina e Edoardo. È strafatto, si agita come un ossesso. Ogni tanto qualcuno gli si appende alla maglietta per attirare la sua attenzione: vuole comprare fumo, o pastiglie o qualsiasi cosa lui si sia calato per stare così.
Tutti sembrano al loro posto, tranne me.
Me ne voglio andare al più presto ma mi sta cominciando a scappare di brutto. Nel bagno delle donne c’è una fila di almeno trenta persone e una puzza di urina e vomito insopportabile. Decido di aspettare fuori dalla porta ed è lì che vedo mio fratello e Valentina su un divanetto, proprio alle spalle dei cessi, che si baciano e si strusciano. Lui ha una mano sotto la sua gonna che va su e giù mentre lei ne asseconda il movimento col bacino.
Distolgo lo sguardo e decido che tutto sommato aspetterò il mio turno dentro al bagno. Riesco a pisciare dopo almeno quindici minuti di attesa. Uscendo butto un occhio al divanetto dove prima c’erano Edoardo e Valentina e che ora è vuoto.
Mi reimmergo nella folla di miei coetanei sempre più ubriachi e disgustosi. Raggiungo il bar, dove chiedo un bicchiere d’acqua e improvvisamente mi vedo comparire accanto mio fratello.
«Che cazzo ci fai tu qui?», mi dice, come se non fossimo a una festa di liceali.
«Niente. Sto andando a casa.»
«Aspettami, vengo con te.»
«E lo Squalo?»
«L’ho perso di vista. Ma conosce la strada, io sono stufo.»
«Sembrava invece ti divertissi un bel po’…», dico a voce troppo bassa perché mi possa sentire in quel casino.
Lo seguo aggrappata alla sua maglietta, mentre la gente ci sbatte addosso. Cerco Valentina tra la folla, individuo le amiche con cui stava ballando prima, ma lei non c’è. Quando arriviamo alla porta chiedo a Edoardo se sia sicuro che sia una buona idea lasciare lì lo Squalo da solo, fatto come una scimmia. In realtà sto pensando a Vale, che non sembrava troppo lucida neanche lei.
Lui mi guarda compassionevole, come se avessi detto la peggiore delle ingenuità e mi trascina fuori per un braccio.

Costeggiamo gli stabilimenti balneari, già completamente allestiti. Il cielo è nero e il mare è mosso, se ne sente il rumore dalla passeggiata e lo iodio che sprigiona nell’aria fa pizzicare il naso.
Mi scappa di nuovo la pipì, non riesco a resistere e glielo dico. Lui sbuffa, si siede sul muretto e tira fuori una sigaretta. Io non mi sento sicura ad andare a pisciare in spiaggia da sola in una notte così, avrei bisogno di qualcuno che mi facesse da palo. Lui intuisce i miei pensieri.
«Dai che ce la fai a fare pipì da sola, a sedici anni suonati.»
«Vaffanculo», gli dico io, e scendo sulla sabbia.
Sopra di me le luci della Suerte illuminano il cielo senza luna, lì sotto è buio pesto. A poco a poco gli occhi si abituano, comincio a intuire i profili degli ombrelloni chiusi e delle sdraio accatastate. Mi avventuro alla ricerca di un posto appartato: non voglio mettermi col culo all’aria in mezzo a una distesa di niente.
C’è un muretto a secco che divide i bagni, lo so per esperienza, penso che possa essere un buon posto dove ripararsi e lo cerco. Percorro la passerella di legno che corre lungo le cabine e lo individuo. Mentre mi sto chinando, coi pantaloni già calati, un verso che potrebbe essere umano mi fa saltare il cuore in gola e mi tiro su di scatto. Tendo le orecchie e sgrano gli occhi, ecco un altro rumore: è uno sbattere ritmico a cui a tratti si sovrappone il lamento umano di prima.
Il cuore mi riempie le orecchie, lo stimolo della pipì è scomparso. Mi riallaccio i pantaloni e seguo il rumore, uscendo dal cono d’ombra della scogliera che mi sovrasta.
C’è una catasta di lettini di plastica bianchi lungo il muretto, il rumore viene da lì dietro. Mi avvicino, non so con quale coraggio.
Quando sono abbastanza vicina, vedo la sagoma di due corpi intrecciati: sono due che scopano. Penso di andarmene da dove sono venuta, ma il lamento non sembra di piacere e allora mi faccio ancora più vicina e li vedo chiaramente.
Supina sulla sabbia c’è Valentina, le braccia allargate a croce, bloccate da quelle magre e nervose di Mauro. Lei piange piano, biascica qualcosa che non si capisce. È buttata lì, molle come una bambola rotta, mentre lui pompa furioso con il bacino tra le sue gambe allargate e inerti.
Non c’è nessuno, non c’è niente intorno a me, se non il rumore del mare e questi due. Mi guardo intorno: lì a terra, a pochi passi, c’è uno di quei pali appuntiti col ripiano porta oggetti che si conficcano nella sabbia per infilarci gli ombrelloni. Lo afferro, lo alzo sopra la testa come una mazza da baseball e lo calo con tutta la forza che ho sulla sagoma dello Squalo. Il tavolinetto di plastica lo colpisce sulla testa e salta via. Lui rimane sospeso sul corpo di Vale ancora per qualche secondo, io alzo di nuovo quella clava improvvisata e colpisco più forte, sull’asse perfetto della colonna vertebrale. Una voragine gli si apre dietro la nuca e il sangue comincia colare sulla faccia bianca di Valentina, che si libera dalla presa e sguscia via prima che lui le collassi sopra.
Il corpo di Mauro è immobile a faccia in giù. Il sangue continua a uscire dalla ferita, si coagula in gocce che scappano sulla sabbia come fossero di mercurio e poi spariscono, assorbite sotto la superficie liscia dell’impronta lasciata dal corpo di lei.
Rimaniamo entrambe a fissarlo, non diciamo niente per qualche minuto. Non si muove.
Allora ci guardiamo: Vale ha la faccia graffiata, i capelli arruffati, la gonna tirata sopra la cintola e la maglietta strappata e schizzata di sangue.
«Andiamo via di qui», mi dice. Mi prende per mano e mi trascina. Corriamo come pazze finché abbiamo fiato, sprofondando coi piedi nella sabbia. Poi ci fermiamo ansimanti davanti al bagnasciuga, le onde più grandi arrivano a lambire le mie scarpe e i suoi piedi nudi.
«Buttalo via!», mi dice indicando il bastone che ancora stringo nella mano destra. Prendo la rincorsa e lo faccio volare più in alto che posso e lui sparisce nel vuoto pesto del mare di notte e sprofonda con un pluf in un punto imprecisato davanti a noi.
«Sei sporca di sangue», le dico.
«Anche tu», mi dice. Io mi tocco la faccia e la giacca di pelle e quando mi guardo la mano è nera e vischiosa.
Mi tolgo le scarpe, la prendo per mano e ci immergiamo fino al collo. Ci sfreghiamo reciprocamente la faccia e i capelli, prima a distanza e poi sempre più vicine, finché ci abbracciamo strette, mentre le onde ci sballottano di qua e di là e noi cominciamo a singhiozzare l’una dentro il collo dell’altra.
Quando siamo calme, ci prendiamo per mano e cominciamo a nuotare verso riva.
«Aspetta», le dico prima che l’acqua ci scopra la pancia, «devo fare la pipì». Vale mi lascia la mano ma non si allontana, io svuoto la vescica contro la consistenza dura dei jeans bagnati e mi esce un gemito di goduria.
Ridiamo. È una risata isterica e amara.
Usciamo dall’acqua e ci allontaniamo nel buio.

Rientro a casa che sono ancora fradicia. Recupero la felpa da dietro il vaso, mi spoglio nuda, me la infilo e nascondo i vestiti zuppi.
Sgattaiolo in camera senza fare rumore, arrotolo i capelli umidi in un asciugamano, metto il pigiama e mi infilo nel letto. Sto per prendere sonno quando mi sento scuotere dalle mani di mio fratello.
«Ma sei fuori?», ringhia in sordina, per non svegliare i nostri genitori. «Dove cazzo eri finita? Ti ho cercata per tutta la spiaggia!»
Nessun cenno allo Squalo.
«Sarai capace, a vent’anni suonati, di trovare la strada di casa da solo», gli faccio il verso io.
«Vaffanculo», dice lui allontanandosi dal letto. «Stronza», aggiunge, e chiude la porta.

Il lunedì a scuola è tutto normale: nessuno parla della festa perché nessuno c’è stato. All’uscita cerco Valentina sul piazzale ma non la trovo, neanche dal pullman riesco a individuarla: vedo le sue amiche ma lei non c’è. Mi metto le cuffie e premo play.
Il pullman fa per partire ma inchioda subito, riapre le porte e fa salire qualcuno. Io guardo fuori dal finestrino finché la sento sedersi accanto a me. Mi volto: ha una felpa col cappuccio calato sulla fronte, toglie gli occhiali da sole e scopre i graffi sullo zigomo. I suoi occhi oggi sono quasi completamente gialli. Ci fissiamo a lungo, non diciamo niente, gli angoli della bocca girati appena all’insù. Poi mi prende l’auricolare destro e se lo infila nell’orecchio. Io glielo lascio fare e torno a guardare fuori dal finestrino. Strizzo gli occhi investiti dal sole mentre il vetro mi restituisce l’immagine della mia faccia che ride forte, con tutti i denti, senza fare rumore.

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