Ho parcheggiato la macchina nella piazzetta vicino casa, davanti alla chiesa di San Luigi Gonzaga.
C’è sempre una compagnia di ragazzetti che staziona lì, tra l’oratorio e il circolo Acli: i più grandi non hanno ancora sedici anni.
Quel giorno si facevano notare: era evidente ne stessero combinando una. Ho lasciato mia figlia addormentata sul sedile e sono restata ad osservarli, in piedi accanto all’auto.
Mettevano petardi dentro bottiglie di vetro vuote e le facevano esplodere in mezzo alla strada. Un signore coi capelli bianchi li ha apostrofati malamente: dal “pirla” al “malcagad” al “cujun”, non gliene ha risparmiata una. Loro hanno reagito da guappi e lo hanno insultato a loro volta.
Il tizio è andato via e allora mi sono avvicinata io, tirandone uno per la giacchetta.
«Ma siete fuori? E se una scheggia di vetro fa male a qualcuno? Vi farebbe sentire bene fare male a uno che passa?»
I ragazzini muti.
Due si avvicinano, danno addosso al piccoletto che ha fatto esplodere l’ultimo petardo:
«È stato sto bambino di merda, Signora…»
«Ma no, ma che io?!»
«Muti, fatela parlare!»
Io proseguo: «Pensate se non vi avessi visto e avessi tirato giù la bambina dalla macchina mentre la bottiglia esplodeva: lei è giusta giusta all’altezza delle schegge.»
«Signora, scusi…io…»
«Non dovete chiedere scusa a me. Vi rendete conto che per sta stronzata vi potreste rovinare la vita e rovinarla a un altro?»
Per un attimo ho visto nei loro occhi un lampo di lucidità. Sono proprio bambini, abitano dentro corpi adulti ma sono ancora bambini, mi sono detta, e sono andata via orgogliosa per essere riuscita a mettere un po’ di senno in quelle teste.
Ho fatto la spesa, sono tornata alla macchina e mentre facevo manovra ho sentito un altro botto.
Erano passati alle bottiglie di plastica.