to be me

THE UPSIDE DOWN

Maggio 27, 2021

Ormai scrivo ogni sei mesi su questo blog quasi decennale. 

Le pubblicazioni scandiscono i  miei picchi di malessere e si declinano in tragedia o commedia a seconda dell’ispirazione del giorno.

A volte una combo delle due, come ai vecchi tempi. Come oggi.

Questa settimana sta durando un mese. È giovedì e la porta dell’agenzia mi guarda spalancata come le fauci del Demogorgone mentre siedo al tavolino del bar di fronte, al sole. C’è del pulviscolo nell’aria, saranno pappi? Posso sentire chiaramente un brivido pervadermi la schiena, il fischio nelle orecchie si fa più intenso: come un amplificatore che aspetta l’accordo della chitarra su cui esplodere. Loro stanno arrivando, mi prenderanno.

Ma partiamo dall’inizio. Lunedì ho passato sei ore e mezza su una seggiola del pronto soccorso perchè mia figlia grande si è rotta scompostamente il quinto dito del piede, alla maniera fessa in cui chiunque si rompe le dita dei piedi: sbattendolo sugli angoli dei mobili di casa. Sul bidet, nel suo caso. Facendo un passo di danza davanti allo specchio. Tre minuti prima di andare a letto, tre minuti prima della quiete e della salvezza.

Le madri dicono sempre le stesse cose, ho scoperto che valeva per la mia e che vale per me. 

Le madri dicono sempre le stesse cose, che sono poi quelle che i figli scelgono deliberatamente di non ascoltare, e lo fanno in maniera sublime, filtrando completamente le frequenze delle loro voci. Tra le cose che dico (urlo, spesso) di continuo, quotidianamente, allo sfinimento c’è anche: non saltate/ballate/arrampicatevi nel bagno che è la stanza più insidiosa della casa.

E infatti.

Un’altra cosa che dico da un anno è “le mascherine usate buttatele nella spazzatura, non in terra”, che mi sembra una cosa ragionevole, molto più ragionevole delle cose che pretendeva mia madre da me (tipo che passassi ore a solfeggiare all’età di 9 anni, al punto che sul Pozzoli – che forse conserva per uno dei nipoti, illusa –  a margine di una pagina, si può leggere una nota, scritta di mio pugno del 1988 che dice “questo libro sarà chiuso in data 31/12/1988 e non sarà mai più aperto”. In realtà il libro fu poi aperto e solfeggiato per altri due anni buoni, ma sto divagando).

Eravamo alle mascherine: ne ho raccolte due anche stamattina. L’ultima volta che ho fatto la predica sull’argomento erano le 20:30 di ieri. 

Lunedì, tra le altre piacevolezze, ho scoperto che mia figlia, quella piccola, aveva tagliato alla radice una delle cinghie regolabili che si infilano negli spallacci dello zaino, rendendolo totalmente inservibile. Mi sono arrabbiata, sono una madre del resto.  Le madri si arrabbiano quando i figli usano impropriamente oggetti taglienti e/o compromettono oggetti diversamente destinati a durare decenni.

Non mi soffermerò sul costo dello zaino perchè non è quello il punto, anche se mia madre me l’avrebbe rinfacciato, per dire.

La bambina è uscita dalla sgridata mortificata, come è giusto che sia, forse consapevole finalmente della cazzata atomica che aveva fatto. Il padre l’ha raccolta piangente per portarla a scuola (io, come dicevo, mi accingevo a passare il lunedì in pronto soccorso e quindi mi dirigevo in taxi verso l’ospedale), si è impietosito e ci ha tenuto a farmi presente che la poverina ha fatto un errore e non si meritava di essere mortificata e che cazzo ho sempre da urlare.

Sono una madre, urlo, è un mio diritto. Non mi cagare il cazzo.

Non gliel’ho detto, ho semplicemente buttato giù il telefono e continuato a lavarmi i denti, consapevole che la sera avrei raccolto mascherine per terra.

Ho scritto seicento parole, sono ancora a lunedì.

Tornata a casa dopo il pronto soccorso avevo ad aspettarmi un centinaio di mail non lette (e qualche mascherina).  L’enorme problema che abbiamo con le mail, noi lavoratori del secolo fragile, è la copia conoscenza. Oltre alle notifiche automatiche delle app che usiamo illudendoci che ci facilitino il lavoro, naturalmente.

La percentuale di mail che ricevo ogni giorno e che non dovrei ricevere (perchè non mi riguardano più o non mi hanno mai riguardata) sono il trenta percento. Ciarpame digitale nel mezzo del quale prima o poi perderai di vista la mail che è davvero importante. E quando dico *davvero importante*, lo faccio ricordando a me stessa e a voi che non lavoro in pronto soccorso, anche se l’allarme “lo stiamo perdendo! lo stiamo perdendo!” risuona spesso dai microfoni dei computer da cui siamo collegati in call infinte (è una patologia nuova, si chiama “binge calling” e sono certa provochi come minimo infertilità) eppure non muore mai nessuno. Purtroppo.

Ma sto divagando di nuovo.

Dicevo delle cento mail. Presa dallo sconforto, le ho ignorate, sono entrata in una call, ho reagito agli input dei colleghi come un ginocchio alla martellata del medico, poi ho chiuso il computer e mi sono buttata nella doccia e poi a letto. 

Martedì, quando ho riaperto il computer, le mail erano ancora lì, e non era morto nessuno.

Lavoro troppo. 

“Silvia, ricordati di quando non lavoravi ed eri disperata”, mi dicono alcuni grilli parlanti. Il Grillo Parlante ha sempre ragione, se ben vi ricordate, ma a Pinocchio fa comunque girare i coglioni e io non sono tanto meglio di Pinocchio. Mi limito a non reagire a martellate.

“Certo, sono contenta di lavorare, solo vorrei lavorare con un po’ più di calma, un po’ meno, un po’ meglio”. Peraltro non ricordo di un singolo giorno della mia vita adulta in cui non abbia lavorato il problema che avevo all’epoca in cui mi lamentavo, riguardava più che altro lo stipendio insufficiente, il carico mentale e tutte quelle istanze femministe che mi dicono annoino a morte e facciano scappare gli uomini, e che quindi non ritirerò in ballo. Sono un’average white girl a cui importa di piacere.

Non so voi, ma io in pandemia ho lavorato il triplo del normale. Immaginatevi cosa possa succedere in un ambiente in cui “lo stiamo perdendo” è la reazione minima a ogni minchiata, quando improvvisamente ti trovi nel mezzo di una pandemia in cui le aziende danno i numeri presagendo il disastro economico e la comunicazione, molto poco riflessiva in questo secolo fragile, sente l’urgenza impellente di dire cose, per lo più senza senso, per lo più obsolete prima ancora di andare online.

“Fermati un attimo e rifletti, prima di parlare”. Le madri lo dicono in continuazione ai figli, che non le ascoltano. Non ci si può certo aspettare che lo facciano le aziende.

Ho scritto altre duecentosessanta parole, e non ho neanche esaurito il martedì.

Credo mi fermerò qui. Sappiate che è andata peggiorando, nei giorni successivi, come fa sempre in pandemia, come fa sempre quando si è stanchi.

Ci sentiamo tra altri sei mesi.

to be me, web

Tinderismo

Dicembre 15, 2020

Succede all’incirca ogni quattro mesi, e con questo intendo dire che è successo ogni quattro mesi nell’ultimo anno. Succede che io mi logghi su Tinder, di solito sto attraversando la fase follicolare del ciclo (detta anche proliferativa, laddove a proliferare sono più che altro le pessime idee). La prima volta è durata pochissimo: mi sono registrata e ne sono uscita inorridita, più da me stessa che dal prossimo mio che mi si è parato davanti in formato catalogo Postalmarket uomo, spring summer 2020.

Io? In vetrina come un quarto di vacca? Ma non scherziamo. Io non sono così.  Continue Reading…

to be me

Come paglia al fuoco

Novembre 18, 2020

È arrivata come arrivano tutte le notizie, brutte e belle: mentre stavo a testa bassa.

La testa era bassa perché fissava lo schermo del telefonino, da dove passa molta della vita che vivo. Dove passa tutta la vita che vivo, di questi giorni.

La notizia è arrivata, quanto?, un mese fa?

Non so più dire il tempo a sensazione. Potrebbe essere da un mese. Potrebbe essere da sempre. Il sole si accende e si spegne ogni giorno sopra un teatro piccolo, che si estende dalla cucina alla finestra con le piante: i punti estremi della casa. Il sole si accende e si spegne ma non ha più niente di naturale. Niente ha più niente di naturale. Sono saltati i cicli, le stagioni. A un certo punto m’è saltato pure il ciclo, il segnale estremo che stava andando tutto a puttane e il mio corpo non faceva eccezione, con tutti gli organi che sento implodere. Il cuore sgonfio come un palloncino ad elio che galleggia a mezz’aria nella stanza, anziché spingere il soffitto alla ricerca del cielo, la pancia ritorta come un cencio da strizzare. Continua a leggere…

storytelling

Uno spettacolo – UN RACCONTO

Giugno 28, 2020

Tra una settimana sarà finito anche ottobre. Il calendario dice autunno, il clima indugia nell’estate: un’estate consunta, malinconica e grigia.
Guido attraverso l’umidità che si alza dalla strada come nebbia: è pioggia che evapora dall’asfalto nel caldo insolito dell’ultima stagione dei miei trentanove anni. Curva dopo curva si fa più sottile, finché il paesino compare davanti a me, in dissolvenza contro il cielo lustro come una colata di stagno.
Lago è un borgo di poche case di pietra, in cima a una montagna che affaccia su una vallata in cui scorre il Trebbia: un nastro verde scuro in un giaciglio di sassi chiari, che ora non posso vedere da quassù.
Sono quindici anni che non torno. La parete della casa di nonna è ricoperta di muschio nero, le persiane screpolate sono punteggiate di gocce di pioggia.
Delle dieci, forse quindici case del villaggio, solo un paio sembrano abitate: la luce gialla delle lampadine a incandescenza filtra attraverso le tende ricamate all’ajour.
La chiave fatica a trovare i binari ma poi ci si infila e il chiavistello scatta con un rumore rasposo. La casa è come la ricordavo, identica in tutto, tranne che per le ragnatele. Non c’è luce, ma ho portato una scatola di candele natalizie che sono saltate fuori dallo sgabuzzino, svuotato per la prima volta in dieci anni di matrimonio.
Le candele sono toccate a me, l’albero di Natale a mio marito. Il servizio di piatti Tognana, regalo di mia suocera per il nostro ultimo anniversario, l’ha preso lui, che detesta apparecchiare. Tutte le pentole me le sono tenute io, che non cucino.
La parte più faticosa della separazione non è stata la gestione emotiva del fallimento, ma il dividersi la vita accumulata insieme, concreta e ingombrante come la roba che abbiamo stipato negli armadi, nei cassetti, in soffitta e in cantina, per anni.
Pezzo pezzo ci siamo spartiti tutto. Siamo due gemelli siamesi separati chirurgicamente: un braccio a te, una gamba a me.
A te la rabbia, a me l’orgoglio.
A me la colpa, a te il perdono.

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storytelling, to be me

Secondo natura

Aprile 1, 2019

Se avessi agito secondo Natura, avrei un figlio per ogni uomo di cui mi sono innamorata.

Non col primo, che è stato un amore bellissimo, ma di un genere tutto suo: siamo stati bambini insieme, amici fraterni e ci siamo insegnati a fare l’amore a vicenda, con i timori e la vergogna dei 18 anni. Poi ci siamo lasciati andare, cresciuti, a vivere il resto della nostra vita.

Avrei fatto un figlio con il mio fidanzato dell’università. Non all’epoca, certo, ma avevo un progetto abbastanza preciso in proposito. La storia è finita, e il progetto non è mai andato in porto. Se lo fosse, oggi vivrei al mare.

Dopo che la storia è finita, mi sono innamorata di un ragazzo bellissimo, con gli occhi neri, le ciglia lunghe e le labbra carnose ereditate da una madre angolana. Il corpo piccolo e compatto, la risata tuonante. Se avessi dato retta alla Natura, mi sarei portata a casa dall’Erasmus un bebè con i riccioli e la pelle scura. La presenza di lui non sarebbe stata necessaria, mi suggeriva la Natura. È stata la mia coscienza sociale a preservarmi da una simile catastrofe, infatti abbiamo sempre usato precauzioni a prova di bomba.

Subito dopo mi sono innamorata di un ragazzo alto e biondo: con lui ne avrei fatti anche tre. Tre bellissimi piccoli caucasici. Per fortuna lui non ne voleva sapere di me, e questo ha scongiurato ogni pericolo.

Dopo il biondo caucasico mi sono innamorata di testa, prima che di pancia e nonostante sia stata una storia che non è mai andata da nessuna parte, sono riuscita comunque a scegliere il nome della nostra futura bambina: si sarebbe chiamata Amina.

È sempre secondo Natura che mi sono sempre innamorata di pancia, prima che di testa: il mio ruolo di femmina, secondo lei, è di perpetuare la migliore combinazione possibile di dna e tutti i ragazzi di cui sopra, avevano un dna da paura. E io, ho realizzato, sono primordiale nella gran parte delle mie manifestazioni.
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to be a citizen

Il fraintendimento sui costi della libera professione e la teoria del rotolo di scottex

Ottobre 12, 2018

Il libero professionista (o freelance) è uno che si fa i cazzi suoi: si arrangia con tutte quelle cose burocratiche che ai dipendenti vengono da sé e, quando il progetto è finito, ti fa la grazia di sparire dal tuo libro paga.
Se lo contatti per un progetto, il libero professionista ti fa un preventivo che include anche e soprattutto quanta testa ci deve mettere, in quel progetto, quante saranno presumibilmente le telefonate che gli arriveranno, quante le mail, per quanti mesi avrà la RAM (sia del computer che del cervello) occupata dalle questioni che lo riguardano e, ultimo ma non meno importante, quante idee ci dovrà buttare dentro.

Spesso la richiesta iniziale è altissima da parte del cliente.
Quasi sempre poi, di fronte al preventivo, si rende conto:

«No ma non ci siamo capiti… mica sarai impegnato tutto il tempo, mica dovrai fare così tante cose. Abbiamo anche i nostri interni: tu devi solo integrare qui, sopperire là. Non sto mica dicendo che il tuo preventivo è alto, è che non ci serve proprio TUTTA la tua professionalità. Ce ne serve solo un po’…».

Mica mi serve tutto il rotolo: due strappi, tre al massimo.

Da un rotolo di scottex non puoi strappare il primo pezzo, poi saltarne sei e strapparne un altro, e poi saltarne 4 e prenderne un altro ancora: in questo modo avresti comunque usato tutto il rotolo, o gran parte di esso.

Due o tre strappi costano ovviamente meno che tutto il rotolo: basta che siano contigui.

rotolo di scottex

In foto, quattro esemplari di libero professionista appena prima di emettere fattura

storytelling

Boy Meets Girl | Sei Storie Sbagliate

Maggio 2, 2018

Sei racconti a domicilio

Ho scritto “Boy meets Girl – Sei storie sbagliate”  una serie di racconti che girano intorno a 6 personaggi principali (più una voce narrante non identificata di cui mi chiederete conto, e io non saprò rispondervi).

Sono sei storie d’amore, o di sesso o di qualcosa che sta là in mezzo.

boy meets girl

Illustrazione: particolare da “Fadeaway” di Caterina Pinto @ Boombangdesign

Questa serie sta lì nei miei progetti e nel mio computer da circa un anno. Ho scritto e riscritto, ho incluso e poi escluso alcuni racconti. Altri li ho inclusi e poi estromessi. Alla fine sono arrivata ad una forma che è sicuramente perfettibile, persino dal mio punto di vista, ma che è ora di lasciare in pace per sempre. Un editor avrebbe molto da dire: lo so perché tempo fa ho chiesto una consulenza professionale in seguito alla quale ho dovuto operare una rivoluzione profonda di forma e di trama. Non ho avuto un confronto successivo sulla forma definitiva (per una serie di ragioni), quindi sono certa che non sia un prodotto “professionale”.

Ma tutto sommato ho deciso che va bene così.

Ora lasciate che risponda ad alcune domande che mi sono già state poste, so che alcuni di voi se lo stanno chiedendo.

Perché scrivi racconti?

Perché mi viene e mi diverte.

Perché non provi a pubblicarli?

Perché i racconti hanno poco mercato, li pubblicano in poche case editrici che tendenzialmente non puntano agli esordienti.

Perché non tentare l’auto-pubblicazione?

Perché sarei in imbarazzo a chiedervi dei soldi. Oltre naturalmente al fatto che dovrei gestirmi la stampa di un vero libro, dovrei metterlo on-line e in vendita etc etc…

Francamente mi basta che questi racconti siano là fuori. Belli o brutti, che qualcuno li legga, che smettano di vivere solo nella mia testa e nel mio computer e mi mettano in comunicazione con il mondo.

Ogni lettore sarà per me una relazione nuova, e un’attestazione di fiducia che mi lusingherà.

Quindi grazie in anticipo a chi si iscriverà e ancora di più a chi avrà voglia di coinvolgere qualcun altro nella lettura.

Ci si iscrive qui sotto e non riceverete altro che i 6 racconti in questione (no mail-marketing, forever)

 

Iscriviti qui:

* campo obbligatorio

 




storytelling

Forma e Sostanza

Aprile 17, 2018

(tempo di lettura: 15 minuti)

Se all’inizio della terza liceo qualcuno mi avesse detto che saremmo diventate migliori amiche, gli avrei riso in faccia: io e Valentina Neri non apparteniamo neanche alla stessa categoria antropologica.
La genetica si è divertita a giocare partite opposte, quando si è trattato di definire le nostre fattezze. Lei è nata bella da genitori brutti, io sono nata brutta da genitori belli: a me l’intelligenza, a mio fratello Edoardo la faccia da schiaffi di mio padre e gli occhi blu di mia madre.
Invece un giorno, senza apparente motivo e per sua iniziativa, Valentina mi si siede accanto sull’autobus che ci riporta al paese dopo la scuola.
«Cosa ascolti?», mi dice, come se parlarsi fosse una cosa normale.
Io ho la musica alta nelle orecchie. Mi levo gli auricolari e le faccio una smorfia come a dire “ce l’hai con me?”. Lei sorride con quella fila di denti che ci potrebbe fare le pubblicità dei dentifrici e indica il walkman in cui sta girando il cd.
«La musica. Cos’è? Si sente fino a qui…»
«Ti dà fastidio?», faccio io.
«No, mi incuriosiva.»
Sorride di nuovo. Ha uno sbaffo di rossetto viola su un canino.
«Sono i C.S.I.», butto là io con aria di superiorità. Lei mi prende le cuffiette senza chiedere, se le infila nelle orecchie e comincia a muovere la testa a ritmo. Poi si abbandona sullo schienale e comincia a far ruotare le braccia una sull’altra a tempo e io provo una fitta di imbarazzo. È “Forma e sostanza”, diocristo, non una hit dance.
Le tolgo gli auricolari e chiedo: «Hai una vaga idea di cosa parli questa canzone?»
«No, ma mi piace. Ha un effetto, tipo, “strobo”. Figo, no?» e ricomincia con quei gesti imbarazzanti di prima. Forse sto arrossendo, allora mi chino e metto il walkman nello zaino. Intanto il pullman è partito e io non ho ancora capito cosa ci faccia questa fighetta disco vicino a me.
«Sei sempre una secchiona?», mi chiede ripescando nella nostra infanzia condivisa quello che dev’essere l’unico ricordo che ha di me.
Non so perché le do corda. Parliamo dei nostri compagni delle elementari: un paio sono in classe con lei, alle magistrali, un paio con me, al classico. Esauriamo i venti minuti di viaggio parlando di niente, poi arriva la sua fermata e scende. Due fighette simili a lei, ma insignificanti, la aspettano sulla panchina, si salutando baciandosi sulle labbra, poi prendono le scalinate di metallo dei bagni comunali e spariscono in spiaggia.

Il giorno dopo succede di nuovo. Gli studenti si assiepano sul piazzale della stazione in un magma confuso. Non è difficile individuare Valentina tra la folla: attorno a lei si forma sempre una cintura di vuoto. Dall’alto del pullman puoi notare un cerchio preciso tra le teste e gli zaini e lei al centro. Le amiche, le gregarie, pendono dalle sue labbra. I ragazzi sbavano ma non osano avvicinarsi: aspettano di essere scelti da lei che invece non guarda nessuno.
La vedo raccogliere la tracolla da terra e buttarsela su una spalla, i capelli setosi fanno la ruota mentre abbandona il gruppo e si incammina verso il pullman.
Pochi secondi dopo è di nuovo seduta accanto a me.
La conversazione è più briosa del giorno prima. Parliamo delle nostre scuole: ginecei asfittici dove è impossibile avere una vita sociale. Io non ne ho molta neanche fuori, per la verità.
«Da noi il rappresentante d’istituto si elegge a crocette, facendo passare un foglio per le classi», dico io.
«Da noi ci sono le suore», ribatte lei vincendo la partita. Ridiamo.
Lei si passa il rossetto viola sulle labbra carnose specchiandosi nel metallo del posacenere attaccato al sedile di fronte. Io guardo il mio riflesso nel vetro del finestrino: ho un brufolo sulla guancia così grosso che si vede anche da lì.
«Parla della società liquida», fa Valentina dopo avere chiuso il suo rossetto. Mi guarda con quegli occhi assurdi, nocciola screziati di giallo. Io ci metto un attimo a capire.
«La canzone di ieri. È proprio figa comunque, mi fai il cd?»
Sarei tentata di chiederle chi gliel’ha suggerita, questa della società liquida. Mi trattengo, ma forse la guardo con sufficienza perché le si incrina la spavalderia.
«Domani te lo porto», dico sorridendo e mi sento pure un po’ stronza.
Lei mi saluta e scende dal bus.

Questa storia continua per un mese e io non chiedo spiegazioni, seppur continui a domandarmi cosa voglia da me. Poi, finalmente, un venerdì capisco.  Continua a leggere…