life in pictures, to be a mom

Vacanza con figli (e benefits)

Agosto 12, 2015

Vacanza è sole e mare e ombrelloni spiegati contro la canicola.

Vacanza sono amori mai fioriti in un’estate anni ’90 (ed improbabili costumi interi).

Vacanza è rischiare l’amicizia di una vita per un amore consumato nello spazio di un caffè (anzi, nello spazio tra i caffè di qualcun altro).

Vacanza è arrancare tra casa e spiaggia seguendo il ritmo del sole (e di due piccole, esigentissime creature).

Quest’anno vacanza è stato scappare da una città infuocata, anche se non sapevamo che lo sarebbe stata, all’epoca in cui abbiamo pianificato il tutto (una coincidenza provvidenziale senza dubbio). All’epoca della pianificazione ci figuravamo piuttosto di scappare dai ritmi indiavolati dell’inverno, dalle fatiche scolastiche, dal traffico dell’Expo (non pervenuto).

Non diremo qui – ancora – dei motivi per cui la vacanza con figli piccoli al seguito non sia realmente “vacanza”, ma piuttosto un lavoro stagionale mal pagato, in una location gradevole, con benefits.

Diremo dei benefits, invece:

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In vacanza puoi osservare i tuoi figli e viverli 24 ore su 24, 7 giorni su 7.

Croce e delizia di pochi, nel mondo reale – che sono ancora qui che mi domando come sopravvivano tutto l’anno così.

Io ho speso ore ad osservare le mie: una sottile e flessuosa, con un corpo di bambina grande dentro cui sta esplodendo una nuova persona; dentro cui le linee rette stanno prendendo il sopravvento sulle linee curve: il mento si affila, le pieghe sopra le ginocchia spariscono, la pancia si sgonfia, compaiono il punto vita e le fossette sopra i glutei.
Te la puoi figurare già grande, ad osservarla con un po’ di prospettiva, te la puoi immaginare con mossette e tutto.
Ho anche temuto che quel che vedo io lo vedano anche altri: e che occhi? E che cervelli? E con quali intenzioni?
E ho pensato al giorno in cui qualcuno “me la porterà via”, al giorno in cui non sarà più in quel limbo protetto che le madri, loro malgrado, sanno garantire solo entro i 13 anni. Ho pensato al giorno in cui si innamorerà di un cretino che non mi piace e non solo non glielo potrò dire, che non mi piace, ma non potrò neanche evitare che ne soffra. Ho pensato al giorno in cui qualcuno saprà di lei e da lei ben più di quel che so io ora e questa è la cosa che mi rincrescerà di più in assoluto: perdere le sue confidenze.

Siamo nel mezzo della mutazione: ancora un anno e cambieremo ciclo scolastico, avremo libero accesso al dentifricio al fluoro e a tutti i laboratori per bambini di tutti i musei di Milano. E io mi caco sotto.

Ho guardato quell’altra, tonda e saltellante: prende la corsa spostando il peso del corpo nella direzione verso cui vuole andare e tutto il resto non è che un arrancare di piedini per mantenere l’equilibrio, mentre stringe forte una matita immaginaria sotto l’ascella, forse una stampella che l’aiuti a stare su. L’energia cinetica che produce si disperde in una miriade di microgesti inutili all’avanzamento, fondamentali al mantenimento dell’equilibrio: uno sforzo sovradimensionato e incongruo. Ridicolissimo, da strapparsi le budella.

Un giorno si dice “grande”, un giorno pretende di essere “piccola”, in base alla convenienza. Certamente di me non se ne fa niente quando c’è qualcosa di nuovo da sperimentare, un gioco dei “grandi” in cui impegnarsi per dimostrare di non essere da meno della sorella.
Di me e dei miei baci si ricorda quando si tratta di far passare un “bibi”, che sia un ginocchio sbucciato o una prevaricazione di sua sorella e io me la godo finchè dura, perchè so che questi superpoteri che mi sono stati concessi non dureranno in eterno.

Il ciuccio è comunque molto chiaro che non lo vuole mollare, nonostante le nostre proposte di intercessione presso la fatina dei ciucci affinchè ci recapiti quella bici blu. Per adesso la mattina vuole la bici e la sera il ciuccio, che poi tra l’altro non fa una grinza.

Meno di due mesi fa, mentre salutavamo per sempre l’asilo nido, mi domandavo come avrebbe fatto ad ambientarsi alla materna, lei, il cui linguaggio capivamo in pochi, pochissimi, praticamente solo io.
E ora parla, fa discorsi, imita le mossette e i toni della sorella, finisce ogni frase assertiva con “Ba bene?” e di sera pretende il “cibana” – che poi sarebbe il pigiama – e anche se lo sa dire bene e ogni tanto se lo lascia scappare, a quella parola si è affezionata lei prima di noi, perchè quando l’ha partorita ci ha fatto tanto tanto ridere. 

E a lei piace far ridere, è il suo talento.

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In vacanza puoi metterti i figli nel letto perchè ti va, non perchè ci sei costretto nel mezzo della notte perchè o è così, o non si dorme più.

In vacanza ti puoi attrezzare e farla diventare una cosa che implichi sonno per tutti, prendendo spunto da Brad e Angelina e dal loro letto open-space.

La sera a Laigueglia dormivamo in un grande letto improvvisato a 3 piazze, sempre troppo piccolo, inspiegabilmente. Sempre troppo caldo, nonostante i muri spessi della casa antica, nonostante il mare e la nudità.
Però dormivamo bene, piedini in faccia inclusi, e quando siamo tornati a casa e ognuno nel proprio letto, mi è mancato un bel po’.

Confesso che al rientro ho sperato ogni sera che si svegliassero nel cuore della notte per transumare nel lettone, salvo pentirmene amaramente quando non solo l’hanno fatto, ma l’hanno pure preso come abitudine. Quel che succede in vacanza, deve restare in vacanza.

E poi c’è stata la volta in tenda in cui hanno dormito abbracciate, una a me e una a papà nelle rispettive “camere”, in una notte di temporale con tuoni spaventosi che squarciavano il cielo e lampi che illuminavano l’uliveto a giorno, disegnando scarabocchi spaventosi sulla superficie della tenda sopra le nostre teste, mentre noi ci riparavamo sotto il sacco a pelo.
E anche se siamo state sveglie finchè i tuoni non hanno cessato, insieme alla pioggia scrosciante, di far risuonare il cielo, non ce lo siamo dette fino alla mattina dopo. Abbiamo chiuso gli occhi e finto entrambe di dormire.

 

Ora sono a casa, da sola: le bimbe in villeggiatura dalla nonna e io sto dentro questo tempo dilatato, che durerà al massimo 3 giorni. Un tempo in cui mattina, pomeriggio, sera e notte sono solo sostantivi poveri di significato, perché privati di tutte le implicazioni onerose che si portano dietro nella vita di sempre.
Posso disporre del mio tempo in ordine sparso: mangio, lavoro, scrivo, leggo, cucino (poco) e dormo.

Durerà tre giorni e poi finirà. Lo chiamano “otium”.

O forse, semplicemente, è vacanza.

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