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Tinderismo

Dicembre 15, 2020

Succede all’incirca ogni quattro mesi, e con questo intendo dire che è successo ogni quattro mesi nell’ultimo anno. Succede che io mi logghi su Tinder, di solito sto attraversando la fase follicolare del ciclo (detta anche proliferativa, laddove a proliferare sono più che altro le pessime idee). La prima volta è durata pochissimo: mi sono registrata e ne sono uscita inorridita, più da me stessa che dal prossimo mio che mi si è parato davanti in formato catalogo Postalmarket uomo, spring summer 2020.

Io? In vetrina come un quarto di vacca? Ma non scherziamo. Io non sono così. 

Laddove con “io non sono così” intendo che nella vita ho preferito appendere al bancone di un bar i miei quarti (non di vacca, di gazzella semmai, e dio sa quanto le vacche si siano divertite più di me nella vita in genere e in quei bar in particolare), con pervicacia inversamente proporzionale alla quota dei successi che mi sono portata a casa e al numero dei cacciatori cui ho lasciato far la parte, nonostante in quanto preda avessi fatto più fatica di quanta me ne spettasse per ruolo.

Comunque: profilo chiuso, app cancellata dal telefono. Adieu.

Poco plauso per la mia presa di posizione m’è arrivato, in quell’occasione, persino dalle amiche, preoccupate dalla mia lunga assenza dal teatrino del dating. Un problema reso annoso, sospetto, più dalla mancanza di pettegolezzo su cui ricamare in quegli appuntamenti semestrali in cui non c’è tempo di raccontarsi le reciproche vite, per cui si sceglie di ripiegare su personaggi maschili minori, da incensare o demolire al solo scopo di ricreare comunione.

Le amiche, gli amici, i conoscenti, dicevo, tutti mi ripetevano all’unisono che non avessi proprio niente da perdere frequentando una dating app, e che siamo nel 2020 perdio e come si stringono le amicizie su Facebook, così si rimediano appuntamenti e scopate su Tinder (anche perché nei bar non ci va quasi più nessuno e i baristi ormai hanno la metà dei miei anni). 

D’altra parte e a vantaggio della loro tesi, devo ammettere non mi siano capitate grandi occasioni d’incontro negli ultimi mesi se escludiamo i padri per lo più sposati dei compagnucci delle mie figlie, i maestri per lo più minorenni delle attività in cui si misuravano le mie figlie prima del lockdown, e i colleghi di lavoro per lo più gay o ventenni, o gay e ventenni (in ogni caso la mia categoria preferita, dovendo scegliere con chi passare una serata).

Preso atto dei tempi cambiati e del modernismo con cui la società tutta mi spingeva a smollarmi un po’, laddove per “smollarmi” intendevano “smollarla”,  mi sono reiscritta a Tinder con uno spirito nuovo. Per altro venivo da mesi di reclusione, come tutti, avevo poco tempo da perdere e ancor meno pazienza. Il clima era favorevole e il cielo insolitamente azzurro e, al netto delle mascherine, la presenza umana è ripiombata nella mia vita con la violenza di un’esondazione insieme ad una consapevolezza nuova: avevo assimilato la lezione femminista così bene, in quei mesi su Instagram fino alle tre del mattino, da concedermi di ammettere, persino ad alta voce, persino per iscritto, che scopare in giro è una cosa buona e giusta, laddove per buona e giusta intendo “imprescindibile” e scema io che non l’ho fatto di più quando potevo.

Laddove per “scema io che non l’ho fatto di più quando potevo” mi riferisco alla mia penosa tendenza ad innamorarmi di tutti i miei partner, a prescindere dal fatto che mi piacessero, al punto da spendere settimane a testare il loro amore per me, riuscendone per lo più delusa e per giunta con la consapevolezza che, se avessi guardato meglio, se me lo fossi domandato, mi sarei risposta che no, non mi interessavano, e che avevo perso un sacco di tempo e di energie, per non dire del milione di occasioni.

Mi madre mi ha sempre rimproverata: “te lo devi far costruire da un falegname!”. Laddove per farselo costruire dal falegname non alludeva certo ad una solidità di principi nè di appendici, bensì al fatto che fossi patologicamente picky. Ai più attenti non sfuggirà che l’aggettivo picky in inglese indica una persona che sceglie con grande cura, ma non implica alcun giudizio sulla qualità di quelle scelte. Io, in particolare, sono sempre stata un cecchino di rara precisione per le scelte sbagliate, oltre che vittima di autocombustioni amorose violente e rapidissime. 

Mi sono riscritta a Tinder dicevo, da capo, con foto nuove e bio nuova, con una disposizione d’animo più libertina e accogliente. 

Laddove per “libertina e accogliente” intendo che ho sospeso il giudizio sulla me stessa appesa come un quarto di bue in una vetrina virtuale, trovando assoluzione definitiva nel fatto di avere selezionato e pubblicato foto descrittive e oggettive, senza filtri, senza inganni e senza il culo. Ne sono uscita dopo due settimane, per noia e per l’eccesso di sbattimento necessario che davvero non avevo previsto. Perchè quello che omettono quando ti dicono che su Tinder ci entrano tutti, è che non ne escono mai: su Tinder, per cavarne qualcosa, ci devi passare le giornate, letteralmente, appesa a chat che non prendono il via, a scorrere le pagine del Postalmarket per accumulare più match possibile, nella speranza che, per la legge dei grandi numeri, ti capiti finalmente la conversazione che vada oltre i primi tre scambi, “ciao come stai” incluso.

Sono stata davvero poco picky nella mia incursione estiva nel mondo del dating, eppure non ho rimediato neanche un’uscita. 

E quando dico che non ho rimediato neanche un’uscita, intendo che sono sparita per giorni dalla chat più promettente di tutte, prima che potessimo arrivare a un quando e un dove, o che sono spariti  loro prima di rispondere al mio invito a saltare il tedio di quelle chat frequentate evidentemente in fusi orari diversi, e a parlarsi di persona, davanti a un caffè. 

La terza volta che mi sono iscritta a Tinder è stato due giorni fa. A dire il vero non ho dovuto re-iscrivermi, perchè il profilo è sempre stato lì, ad accumulare match a mia insaputa e messaggi che ormai sono finiti nel limbo in cui risiedono le cartoline mai inviate in 15 anni di vacanze al mare dell’epoca pre-internet. Sono del 1979, casomai ve lo stiate chiedendo, e questo è un altro elemento determinante nel mio Tinderismo fallimentare: ho impostato un range di età che mi sottopone a un catalogo di nati tra il 1990 e il 1970. È probabile io stia disperdendo le energie dell’algoritmo, che per questo mi punisce con proposte da mass market, quando è evidente io sia un prodotto di nicchia. 

Laddove per “prodotto di nicchia” intendo che ho due figlie, due gatti, due lavori, un mutuo e una sola serata libera alla settimana, più week end a settimane alterne: uscire con me o imbroccare una cinquina al Bingo di Corvetto è dato alle stesse probabilità, soprattutto considerando il fatto che col Covid la Sala Bingo ha chiuso.

Ma ho intenzione di essere più paziente questa volta, cercherò di essere accogliente e di prenderla con filosofia (chissà di quale filosofia si parli, quando si usa questa espressione: io per praticità sceglierò il nichilismo, che in questo contesto mi sembra calzante). Ho cominciato benissimo: oggi un tizio mi ha scritto che ho delle belle labbra (che peraltro è vero), e non gli ho risposto con sufficienza, anzi, gli ho restituito il complimento, anche se non lo pensavo. Lui allora ha replicato: “relazioni o avventura” e io “whatever”. Il plotone di femministe intersezionali che abita nella mia testa dice che è molto orgoglioso di me.

Eppure ci sono cose di cui ancora, al mio terzo viaggio negli inferi del dating, non mi capacito.

Tipo le foto delle macchine e delle moto, senza che gli intestatari del profilo vi siano dentro o in groppa: che senso hanno? Mi vogliono dire che hanno la patente? Che sanno guidare? O puntano a quella micro nicchia di bikers femmine che pure dovrebbero avercelo tra gli interessi, in caso, e io non ce l’ho.

Poi non capisco i profili di soli paesaggi, senza anima viva, in alcuni casi addirittura senza bio. Qual è la regola del gioco che sfugge a costoro? Pronto? Non siamo su Quattroruote, e neanche sul National Geografic. È il Postalmarket, baby: stacce. 

Mi rendo conto che la categoria da cui pretendo di pescare è probabilmente la più abietta e decadente del genere umano. I maschi bianchi eterosessuali sono colpevoli di quasi tutti i mali del mondo, com’è noto, ma a loro discolpa dobbiamo pur dire che sono stati educati malissimo. Per questo cerco di essere possibilista (soprattutto quando mi sembrano bellini), e soprassiedo sulle bio di 15 battute, punti di sospensione ed emoticon incluse. Passo persino sopra alle foto coi cani (lui con il cane, il cane con lui, lui abbracciato al cane, il cane che limona lui – diosanto), e già mi sto spingendo dove il mio omologo maschile mai si spingerebbe. 

Laddove per “dove il mio omologo maschile mai si spingerebbe” intendo dare una possibilità a una gattara in tuta rosa di pile e Emu, che sono come gli Hugg, ma di sottomarca.

Eppure quando leggo le bio che più che bio sono liste della spesa, cataloghi di caratteristiche fisiche di preferenza, e inviti a “non matchare se” non ce la faccio: mi sale il crimine. Laddove per “mi sale il crimine” intendo che mi domando: chi cazzo crediate che vi si inculi voi, la vostra moto, il vostro cane di merda e quel minion cianotico che vi abita nei pantaloni? 

Ed è a quel punto che il mio avatar interiore si trasforma in una creatura mitologica, mezza gazzella e mezza vacca, e si augura di incontrarvi in quel bar in cui – potete stare certi – mi appenderò non appena questa cazzo di pandemia sarà finita, di attrarvi con le sinuosità del mio sopra di ungulato, godermi la vostra avanzata sicura verso di me con in canna una di quelle frasi di merda che ripetete da trent’anni e che non hanno mai funzionato, quindi farvi un rapido sgambetto per il sol gusto di vedervi cadere e calpestarvi le palle con tutto il mio peso di vacca incazzata. 

Ma sto divagando. Ci sentiamo tra due settimane, quando torniamo in zona rossa, e vi faccio sapere come sono andati i date. 

(segue un esempio del tipo di foto che su Tinder non ho messo)

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