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Uno spettacolo – UN RACCONTO

Giugno 28, 2020

Tra una settimana sarà finito anche ottobre. Il calendario dice autunno, il clima indugia nell’estate: un’estate consunta, malinconica e grigia.
Guido attraverso l’umidità che si alza dalla strada come nebbia: è pioggia che evapora dall’asfalto nel caldo insolito dell’ultima stagione dei miei trentanove anni. Curva dopo curva si fa più sottile, finché il paesino compare davanti a me, in dissolvenza contro il cielo lustro come una colata di stagno.
Lago è un borgo di poche case di pietra, in cima a una montagna che affaccia su una vallata in cui scorre il Trebbia: un nastro verde scuro in un giaciglio di sassi chiari, che ora non posso vedere da quassù.
Sono quindici anni che non torno. La parete della casa di nonna è ricoperta di muschio nero, le persiane screpolate sono punteggiate di gocce di pioggia.
Delle dieci, forse quindici case del villaggio, solo un paio sembrano abitate: la luce gialla delle lampadine a incandescenza filtra attraverso le tende ricamate all’ajour.
La chiave fatica a trovare i binari ma poi ci si infila e il chiavistello scatta con un rumore rasposo. La casa è come la ricordavo, identica in tutto, tranne che per le ragnatele. Non c’è luce, ma ho portato una scatola di candele natalizie che sono saltate fuori dallo sgabuzzino, svuotato per la prima volta in dieci anni di matrimonio.
Le candele sono toccate a me, l’albero di Natale a mio marito. Il servizio di piatti Tognana, regalo di mia suocera per il nostro ultimo anniversario, l’ha preso lui, che detesta apparecchiare. Tutte le pentole me le sono tenute io, che non cucino.
La parte più faticosa della separazione non è stata la gestione emotiva del fallimento, ma il dividersi la vita accumulata insieme, concreta e ingombrante come la roba che abbiamo stipato negli armadi, nei cassetti, in soffitta e in cantina, per anni.
Pezzo pezzo ci siamo spartiti tutto. Siamo due gemelli siamesi separati chirurgicamente: un braccio a te, una gamba a me.
A te la rabbia, a me l’orgoglio.
A me la colpa, a te il perdono.


Domani arriveranno i tecnici della luce e del gas, per questa notte mi arrangerò con le candele e gli spaghetti cinesi liofilizzati: ho portato un termos di acqua calda da versare nella confezione. Fa più freddo di quanto avessi immaginato; l’umidità accumulata in questa casa per anni sembra aver deciso di trasferirsi in blocco nelle mie ossa e fuori si è pure rimesso a piovere.
Esco coprendomi con una cerata che ho trovato nell’armadio e salgo nel rustico alla ricerca di un po’ di legna per la stufa.
Fuori è già buio pesto e io non ho una torcia. Sul viottolo che corre stretto tra le case si accende un lampione dalla luce fioca, utile solo a mostrarmi quando fitta sia l’acqua che mi sta allagando le scarpe di tela. Procedo a tentoni finché non trovo la catasta di legna. È legna vecchia, di faggio, dovrebbe bruciare bene. Smuovo un ciocco bello grande che sembra incastrato, o forse è solo troppo pesante. Tiro forte e mi ritrovo col culo per terra e il legno in braccio. Mi sale una frustrazione che si muta subito in sconforto: ho sbattuto il sedere così forte a terra che temo non riuscirò più ad alzarmi. Sto per mettermi a piangere, quando un fascio di luce mi illumina da dietro e mi volto di scatto.
«Vuoi una mano?»
Sopra di me si staglia una figura alta e snella, di cui non vedo il viso. Mi alzo schermandomi gli occhi con la mano, allora lui abbassa la torcia e si avvicina. Ha un viso familiare che però non riesco a collocare nella memoria.
«Mi faresti proprio una cortesia. Sto cercando di portare un po’ di legna su in casa.»
«Al buio?»
«Non ho una torcia. Solo candele.»
Punta la luce sulla catasta di legna, poi ne prende qualche pezzo tra le braccia e mi fa strada giù per le scale.
«Grazie», dico io e gli vado dietro incappucciata nella plastica vecchia della mia cerata.

Mi avvicino alla stufa e armeggio con lo sportello di ghisa. Di fronte a questo sconosciuto vorrei comportarmi come un’adulta che sa badare a se stessa, ma lo sconforto di prima non mi molla.
Lui deve accorgersene perché si fa avanti e prende il mio posto davanti alla stufa. Armeggia in silenzio e dopo qualche minuto richiude lo sportello dietro il quale una piccola fiamma sta cominciando a mangiarsi il faggio vecchio.
«Non so come ringraziarti. Non ho niente da offrirti… ma se vuoi ci smezziamo questi», dico mostrandogli gli spaghetti liofilizzati e subito mi pento di quell’uscita.
Mi sento inadeguata e insicura. Chissà se è normale. Chissà se è così che si sentono i gemelli siamesi, dopo che li hanno separati dal loro doppio.
«Non c’è di che. Ma gli spaghetti non li prendo, grazie», dice lui avvicinandosi. Ora il suo viso è illuminato dalle candele: è un bel ragazzo, molto giovane. Ha gli occhi chiari, quasi trasparenti, il naso affilato e una barba curata, scura sulle guance e di un rosso ramato intenso sul mento. Mi guarda dritto negli occhi come si aspettasse che dicessi qualcosa.
«Non mi hai riconosciuto, vero?»
Cado dalle nuvole.
«La tua faccia mi è familiare, ma… non riesco proprio…», strizzo gli occhi per guardarlo meglio. Ha le lentiggini e un bel sorriso.
«Sono Martino, il nipote di Nanda.»

“Che te ne pare di Martino?”, mi aveva detto mio marito nel periodo in cui s’era fissato che dovessimo fare un bambino. “Mi sembra un nome da infante. Non ce lo vedo proprio un uomo che si chiama Martino”.

«Ma certo, che idiota!» dico io che improvvisamente ricordo perfettamente il bambino moccoloso e rachitico che era, con un cespo fulvo sulla testa e quegli occhi chiarissimi di cui la Nanda andava così fiera.
«È passato un secolo, quanti anni hai adesso?»
Gli parlo come se avesse ancora sei anni e la sua espressione mi suggerisce che non sia il registro giusto per quella conversazione.
«Ventotto», dice fissandomi. Accenna un sorriso senza smettere di guardarmi.
«E cosa ci fai qui in mezzo al nulla, a ventotto anni?»
«Vengo ogni autunno per pescare. Una settimana di pesca, vino e solitudine.»
«Allora mi scuso dell’intromissione: ti prometto che dopo stasera sarò invisibile.» Rispondo al sorriso, ho cambiato registro.
Improvvisamente mi attraversa la mente una fantasia di lui che con fermezza mi spinge sul letto chippendale della stanza accanto, in cui non sono ancora entrata, ma che ricordo nel dettaglio: la radica della testata, la peretta della luce che pendeva in mezzo ai cuscini, il materasso di lana bitorzoluto e l’odore di muffa che usciva dal mastodontico armadio di fronte.
Devo essere disperata. O folle. O entrambe le cose.
«In realtà sono contento di rivederti», dice.
Me lo dice senza cambiare inflessione della voce e continua a fissarmi con un’espressione seria che non riesco a interpretare perché sono altrove: le sue mani mi bloccano i polsi incrociati sopra la testa e la sua barba mi punge la faccia, il collo, il seno. La radica scricchiola.
«Di solito non mangio questa roba», dico. Distolgo lo sguardo e prendo fiato.
Strappo l’alluminio dal barattolo di spaghetti e ci verso l’acqua dal termos.
«Dai, vado a prendere del vino: non si sopravvive a una cena così triste senza vino e compagnia», dice facendo un passo verso di me e recuperando il contatto d’occhi. Sento sapore di sangue in bocca: mi sto torturando l’interno del labbro coi denti da mezz’ora. Lui recupera la torcia ed esce.

Sono seduta al tavolo e pesco spaghetti dal brodo tiepido. In sua assenza mi vedo da fuori: una quarantenne separata che fantastica su un ragazzino appena incontrato, mentre il suo matrimonio è ancora caldo.
Quando torna gli offro la sedia di fronte a me con un gesto della mano.
«Ovviamente non ho neanche il cavatappi», gli dico, e mi sembra di essere tornata in me.
«Ha il tappo a vite», risponde lui spezzando il filetto di alluminio e facendo un ampio gesto col braccio e un inchino, come gli fosse appena riuscito un gioco di prestigio.
Estrae due bicchieri di plastica dalla tasca della giacca e riempie il primo, lo sfila e me lo porge arpionandomi lo sguardo. Lo sostengo per qualche secondo, schermandomi con il bicchiere da cui bevo un piccolo sorso aspro. Non capisco se è tutto nella mia testa o se anche lui ci stia mettendo del suo.
Si versa il vino, beve.
«Me la ricordavo più piccola questa casa», dice guardandosi intorno nella luce delle candele.
«Eri tu che eri un nano…»
Le mie coetanee con figli li chiamano così i bambini, “nani”. Lo trovo un nomignolo offensivo.
«Sai cosa mi ricordo enorme? Il letto in camera di tua nonna. Nella mia memoria è una specie di astronave», sorride forte e la sua espressione mi richiama precisa la faccia di lui bambino. Sorrido anche io.

Beviamo e chiacchieriamo di quelle estati antiche. Nanda e mia nonna che fanno i tortelli di zucca su quel tavolo, io seduta sulla soglia di casa che ascolto musica indie inglese dal walkman, impermeabile al fracasso dei giochi di lui e di suo fratello, più grande di due anni. Mi racconta che per loro, ancora prigionieri in un mondo di soli maschi, io ero un essere mitologico, una specie di dea. Mi sento lusingata ma allo stesso tempo passata, scaduta: una donna di seconda mano.
«Mi fai fare un giro per la casa?», mi chiede quando gli aneddoti sembrano esauriti. Lo scorto lungo il corridoio, illumino con la sua torcia il piccolo bagno dalle piastrelle beige a fiori verdi, poi la cameretta con i letti a castello dove dormivo coi miei cugini. Infine arriviamo alla stanza di nonna, in cui troneggia scura e severa l’astronave.
«È diventata una scialuppa…», dice sedendosi sul letto e facendo cigolare le molle. Mi guarda con la fermezza di prima e una specie di prurito mi stuzzica il diaframma, che si contrae facendo inciampare il respiro.
«Anche tu sembri più piccola…»
Sono solo più vecchia, penso io. Mi stanno cadendo i capelli a ciuffi in questo autunno definitivo. Quelli che ricresceranno al loro posto, saranno tutti bianchi.
«…però sei ancora uno spettacolo», aggiunge e non gli si incrina nemmeno la voce. Lo dice come un fatto oggettivo: nello stesso modo in cui avrebbe detto “ha smesso di piovere”.
Di nuovo mi vedo da fuori: sono una barchetta alla deriva, un relitto. Ho la pelle segnata dai pianti e gli occhi disincantati di chi ha visto la fine della giovinezza e delle illusioni. Eppure, in mezzo a questa rovina, la fantasia di prima torna prepotente e sembra ancora più reale.
Siamo sdraiati sul letto per traverso, sento le bordate del suo corpo dentro il mio che mi spingono la testa giù dal materasso, un centimetro dopo l’altro. La mia nuca scivola nel vuoto, il collo si protende e gli occhi si ribaltano nelle orbite come biglie.
«Ti ricordavo birichino e ti ritrovo uguale», gli dico con tenerezza ambigua, come fossimo due ragazzini che giocano al dottore.
Stende le braccia all’indietro e ci si appoggia, incurvando la schiena e il bacino. Se facessi un passo, se mi parassi proprio di fronte a lui, mi prenderebbe una mano e mi trascinerebbe verso di sé.

«È rimasto del vino in quella bottiglia?» gli chiedo sapendo già la risposta. Lui torna a sedere diritto, non percepisco nessuna flessione nel suo atteggiamento. Mi risponde come se la conversazione fosse rimasta quella che era in cucina, come se non mi avesse detto che sono “uno spettacolo” o almeno come se non fosse rilevante.
«Ce n’è ancora ed è tutto per te. Domattina ho la sveglia alle cinque, per me è ora di andare a dormire», dice alzandosi e dirigendosi in cucina.
Il fuoco nella stufa sta morendo. Se ne accorge prima di me, che mi sono dimenticata anche del freddo. Infila il ciocco più grande nello sportello, lo chiude e si pulisce le mani dalla cenere sui pantaloni.
Lo accompagno alla porta. Quando mi saluta mi guarda negli occhi e mi sorride.
“Sei ancora uno spettacolo”, ha detto.

Chiudo la porta e sto ferma lì ad ascoltare il rumore dei suoi scarponi sulle pietre bagnate, finché sparisce coperto dal verso di un uccello notturno.

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