to be me

Come paglia al fuoco

Novembre 18, 2020

È arrivata come arrivano tutte le notizie, brutte e belle: mentre stavo a testa bassa.

La testa era bassa perché fissava lo schermo del telefonino, da dove passa molta della vita che vivo. Dove passa tutta la vita che vivo, di questi giorni.

La notizia è arrivata, quanto?, un mese fa?

Non so più dire il tempo a sensazione. Potrebbe essere da un mese. Potrebbe essere da sempre. Il sole si accende e si spegne ogni giorno sopra un teatro piccolo, che si estende dalla cucina alla finestra con le piante: i punti estremi della casa. Il sole si accende e si spegne ma non ha più niente di naturale. Niente ha più niente di naturale. Sono saltati i cicli, le stagioni. A un certo punto m’è saltato pure il ciclo, il segnale estremo che stava andando tutto a puttane e il mio corpo non faceva eccezione, con tutti gli organi che sento implodere. Il cuore sgonfio come un palloncino ad elio che galleggia a mezz’aria nella stanza, anziché spingere il soffitto alla ricerca del cielo, la pancia ritorta come un cencio da strizzare.

La notizia è arrivata una sera, di un week end che ero con le bambine. Sarebbe stato insostenibile se fossi stata da sola. Stavo stirando una montagna di magliette taglia dieci e sette anni. Odio stirare, ma odio ancora di più i vestiti stropicciati. Basto io per quello. Ho acceso il telegiornale: non lo faccio mai, ma era un gesto automatico imprescindibile, un rito collettivo a cui è impossibile sottrarsi, pena il sentirsi ancora più solo.

Me ne stavo con una maglietta in mano e il ferro appoggiato a faccia in giù che bruciava il copri asse e non so che faccia avessi ma Angelica si è bloccata in mezzo alla stanza, guardandomi, e mi ha chiesto perché ce l’avessi, quella faccia.

“Cosa c’è, mamma?”

Cosa c’è mamma è un allarme potentissimo, è lì che sai che sei nei guai, che forse non andrà tutto bene, o almeno che dovrai metterci del vero impegno per farlo andare bene. “Cosa c’è mamma” non si cura con un bacino o con un cerotto. L’ha detto meglio una mia amica, più brava di me.

Quella sera ho pianto, l’ho lasciata andare. Ho detto che avevo paura, che non volevo si fermasse tutto di nuovo e che volevo tantissimo la mia vita, la nostra vita, con tutta la fatica che mi era costato quel barlume di inizio, quella promessa di serenità durata troppo poco per abituarcisi. Ho pianto e mi sono fatta consolare e in quel modo ho consolato. Che ai bambini non c’è proprio ragione di mentire: le balle sono la criptonite dei bambini. Dite la verità ai bambini, quando chiedono, e da adulti si prenderanno il Mondo.

Poi è andata nell’unico modo in cui poteva andare: avanti. Sembra di stare dentro il Truman Show, anche perchè passo la maggior parte del tempo con la mia faccia inquadrata dalla fotocamera del Mac. Sono così assuefatta del guardarmi, che non mi danno persino più fastidio le fotografie. Ieri per ovviare al fastidio mi sono messa il rossetto e mi trovavo carina.

La densità di questa solitudine è tale che improvvisamente la stronzata del “mi trucco per me stessa” ha acquisito un senso. Vicino a quello che deve avere il truccarsi per un paziente psichiatrico.

Ogni giorno faccio avanti e indietro la conta delle fortune e delle sfortune, e mi scopro con rammarico sempre in debito dalla parte della fortuna: ne ho avuta parecchia, considerate le circostanze. E di qui i conti col senso di colpa ogni volta che mi lamento. Con i sogni in stand by. Con i programmi rimandati, come i concerti di cui ritrovo biglietti inutilizzati nei cassetti e di cui mi squillano promemoria di Google Calendar, da un’altra dimensione.

Stiamo disimparando a vivere? Qualcuno lo dice.

Io ho così tanta voglia di vivere di nuovo che, quando capiterà, potrei morirne. O prendere fuoco.

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