storytelling, to be me

Secondo natura

Aprile 1, 2019

Se avessi agito secondo Natura, avrei un figlio per ogni uomo di cui mi sono innamorata.

Non col primo, che è stato un amore bellissimo, ma di un genere tutto suo: siamo stati bambini insieme, amici fraterni e ci siamo insegnati a fare l’amore a vicenda, con i timori e la vergogna dei 18 anni. Poi ci siamo lasciati andare, cresciuti, a vivere il resto della nostra vita.

Avrei fatto un figlio con il mio fidanzato dell’università. Non all’epoca, certo, ma avevo un progetto abbastanza preciso in proposito. La storia è finita, e il progetto non è mai andato in porto. Se lo fosse, oggi vivrei al mare.

Dopo che la storia è finita, mi sono innamorata di un ragazzo bellissimo, con gli occhi neri, le ciglia lunghe e le labbra carnose ereditate da una madre angolana. Il corpo piccolo e compatto, la risata tuonante. Se avessi dato retta alla Natura, mi sarei portata a casa dall’Erasmus un bebè con i riccioli e la pelle scura. La presenza di lui non sarebbe stata necessaria, mi suggeriva la Natura. È stata la mia coscienza sociale a preservarmi da una simile catastrofe, infatti abbiamo sempre usato precauzioni a prova di bomba.

Subito dopo mi sono innamorata di un ragazzo alto e biondo: con lui ne avrei fatti anche tre. Tre bellissimi piccoli caucasici. Per fortuna lui non ne voleva sapere di me, e questo ha scongiurato ogni pericolo.

Dopo il biondo caucasico mi sono innamorata di testa, prima che di pancia e nonostante sia stata una storia che non è mai andata da nessuna parte, sono riuscita comunque a scegliere il nome della nostra futura bambina: si sarebbe chiamata Amina.

È sempre secondo Natura che mi sono sempre innamorata di pancia, prima che di testa: il mio ruolo di femmina, secondo lei, è di perpetuare la migliore combinazione possibile di dna e tutti i ragazzi di cui sopra, avevano un dna da paura. E io, ho realizzato, sono primordiale nella gran parte delle mie manifestazioni.

Quando a 26 anni mi sono innamorata di nuovo, avevo finalmente un’età e una posizione per cui avrebbe avuto perfettamente senso farli davvero, dei bambini. E così è stato: mi sono innamorata di pancia innanzi tutto, e poi mi sono innamorata di testa e di un progetto.

Sono rimasta incinta prestissimo e per caso. La prima volta ne avevo 27 ed ero così impreparata sull’argomento, da avere scambiato per quasi due mesi una gravidanza per una grave costipazione. Quando finalmente mi sono fatta vedere, mi è stato rivelato che quell’ingombro al basso ventre, duro come una pallina da tennis incastrata tra le budella, era un feto di 9 settimane, che si succhiava il dito proprio come quei gadget di plastica che distribuivano a Verona domenica scorsa. E proprio come quei feti di plastica, dopo qualche giorno era senza vita. Se n’è andato giù per gli scarichi fino al mare, mi piace pensare, dopo una notte di spasmi dolorosissimi che ho vissuto da sola, raggomitolata sul tappetino del bagno come una bestiolina. Se n’è andato come se ne va tutti i mesi l’ipotesi di un figlio, in una colata di muco e sangue di cui non è bene parlare, anche se è naturale.

La natura è una stronza, l’ho pensato e l’ho stramaledetta in mille sessioni di pianti in cui le domandavo perchè, cos’avevo io che non funzionava. Poi ho realizzato che la vera stronza è la cultura che non ti dice, non ti spiega: non ti prepara.  L’ho imparato dopo altre due gravidanze fallite e oggi ci ripenso con un misto di fatalità e di sollievo. Ha preferito conservare me, che vivevo, piuttosto che un piccolo alieno che non ce l’avrebbe fatta.

Non siamo tutte così fortunate, per questo abbiamo inventato la scienza, che dalla natura ci protegge. Per questo abbiamo la filosofia, a dare un senso al nostro pensiero e alle nostre vite.

Un capriccio di natura ha messo me e quel ragazzo moro e alto davanti alla possibilità di una famiglia, e l’idea ci è talmente piaciuta che l’abbiamo tradotta in matrimonio e l’abbiamo portata avanti per dieci anni.

Non è stata una cattiva idea, sia chiaro. Solo che è fallita, perché in quell’accrocchio di responsabilità e doveri, e attese e disattese che è la famiglia tradizionale, che non ha proprio niente di naturale, si è tutto confuso, si è perso, è svanito. L’unica cosa che è rimasta sono le nostre bambine. Quando mi guardo indietro, nella valle di lacrime di questi primi mesi del 2019, e vedo loro, penso che ne è comunque valsa la pena. La famiglia resta perché la famiglia sono persone che ti stanno accanto e ti raccolgono quando cadi e anche se ci siamo mandati al diavolo e odiati, siamo sempre lì: uno di qui e uno di là. Due adulti che non si riescono più a gestire tra loro, ma che sono pronti a prenderle se cadono, a tagliare unghie nere, a pettinare capelli chilometrici e a portare quintali di borse su per centinaia di gradini, quando si tratta di fare la cosa giusta per loro.

In questa valle di lacrime, ho realizzato che la famiglia sono anche le amiche che mi ascoltano ripetere lo stesso delirio per dieci sere di fila senza battere ciglio, che mi asciugano le lacrime e mi versano il vino. E non c’è niente di naturale in tutto questo, niente che sia scritto nel nostro patrimonio genetico.

La famiglia è quella che ti prende e ti ama così come sei, e non basta essere una mamma o un papà, non è un’abilità che ti porti a casa dall’ospedale insieme al bambino.

La natura è così subdola che mi farà innamorare di nuovo, nello stesso modo ottuso di quando avevo 20 anni: probabilmente di un altro ragazzo alto, con un dna compatibile col mio. Ma quello che non sa, è che io ho imparato a distinguere l’innamoramento dall’amore e ho messo in cima alla lista quello verso me stessa e poi quello per la mia famiglia, perché un’altra cosa che ho imparato è che senza il primo anche il secondo è zoppo.

Per cui, ragazzo del futuro, in bocca al lupo: non sarà facile trovare posto a sedere, non ci saranno altri bambini, ma potrebbe essere un viaggio bellissimo, finché dura.

 

 

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