Io, per esempio, ci sono andata per lavoro e poi, già che c’eravamo, siamo rimasti qualche giorno in più a fare i turisti.
Siamo andati a passeggio sui canali di cui parla la mia canzone feticcio del periodo, che fa più o meno così:
La mia casa è a Camden Town, nella Londra dei canali, dei mercati sempre pieni, degli inglesi sempre strani

Io, per esempio, mica lo sapevo che ci fosse gente che ci vive proprio, in queste barche ormeggiate lungo i canali.
E in effetti è vero che gli inglesi sono “strani” visti dalla nostra prospettiva mediterranea: sorridenti per forza nei negozi, gelidi spesso e volentieri appena battuto lo scontrino.
Forse è colpa dell'”invasione“che ha cancellato la faccia di quella che doveva essere la Londra di un secolo fa, e per questo la soffrono poco e mal volentieri.
Non c’è quasi più niente di distintamente inglese se non in certi antichi borough esclusivi.
Non c’è traccia della Londra che fu nei quartieri high-tech che fagocitano le ex-periferie proletarie dei cantieri navali, come succede sull’Isola dei cani, che non si sa se sia una storpiatura di “docks” in “dogs” – laddove i “cani” erano quei disperati che facevano la fila ogni mattina sui moli, all’esame dei caporali che all’alba facevano incetta di schiavi – , o se sia perché non so più quale sovrano, sulla terra delimitata da quell’ansa che fa il fiume appena a nord di Greenwich, allevasse cani di non so più che specie.
Non ce n’è traccia appena più a nord, tra i grattacieli di Canary Warf, dove giocano a Risiko, ai piani alti della finanza, e sul piatto ci sono le sorti del mondo.
Siamo andati a piedi dal Regent’s Park fino a Camden Town, dove è tutto una giostra di colori, di vetrine, di facciate, di barboni e disperati. Di punk e di eroinomani, e poi dei figli in technicolor di quell’Europa verso la cui uscita si è appena aperto il casello; se ne stanno seduti in terra lungo il canale con una birra, determinati a godere della giornata di sole, di quelle rare che non sono destinate ad essere spazzate via dal giro di vento sbagliato prima di averti lasciato il tempo di toglierti le scarpe.
Siamo andati a trovare mio fratello, che vive lì da 3 anni. In mezzo a tutta quell’umanità, in mezzo a quelle strade e linee di metropolitana sprofondate al centro della terra, in mezzo a quei luoghi dove – lo puoi percepire chiaramente – accade tanto di quel che conta in questa parte di mondo, in quell’ombelico da cui tutto sembra possibile e il richiamo a rendere la propria vita memorabile si traduce in aspirazione alla ricchezza, ho sentito così tante volte parlare la mia lingua da sembrarmi infine una cosa naturale.
C’è tutta una moltitudine di ragazzi italiani al di qua e al di là del Tamigi: baristi nei locali, punkabbestia sui canali, artisti, insegnanti, sognatori; gente che si è già persa e gente che sta tornando indietro. È una comunità enorme, che ti fa sentire a casa e che ti rivela la natura del nostro popolo per differenza con tutto ciò che la circonda. Ed è un bel popolo, tutto sommato, visto da lì.
È un bacino di ricchezza enorme e perduto, che non avrebbe avuto tante pretese: avrebbero voluto stare in un Paese che desse loro l’idea (o l’illusione, almeno) che ci fosse posto per loro, che ci fosse un futuro con una rosa ragionevole di possibilità tra cui scegliere.
Mi hanno detto che il momento critico per gli emigrati è il settimo anno, salvo che per i pochi fortunati che si sono potuti inserire davvero in quel tessuto a maglie strette: dopo 7 anni hanno voglia di tornare. Perché le case costano in maniera spropositata, anche se sono orribili, perché le possibilità sono infinite ma solo se hai i soldi per poter correre loro dietro, perché il clima è infame, perché gli inglesi sono complicati e perché noi siamo gente del sud e non ci può essere mimesi, solo accettazione.
Siamo andati alla Tate Modern e subito dopo ho scritto questa cosa:
Fare un giro dentro una galleria d’arte contemporanea ha qualcosa di una liturgia sacra. Le architetture delle nuove gallerie hanno l’imponenza e lo slancio di certe cattedrali e chi vi si immerge lo fa nel silenzio assorto che è preteso dal rito. Le opere sono inavvicinabili, gli altri avventori da rispettare. Nessuno si accalca, nessuno spintona.
Immergersi in una galleria d’arte contemporanea equivale a immergersi nel proprio tempo, guardarlo in faccia, farci i conti e uscire con la consapevolezza di essere piccoli e brevi, sì, ma inseriti in un contesto in cui i processi sono lenti e mastodontici.
Siamo andati a lavorare, l’ho già detto: per quattro giorni in una fiera a Islington e sarà per quell’overdose di voci e acustica imperfetta iniziali, ma la cosa che mi ha ossessionato in questo viaggio e più di tutto è stato il rumore. A un certo punto non riuscivo più nemmeno ad entrare in un pub per cenare, meglio un panino di Prêt a Manger su una panchina. Il rumore incessante del traffico fuori, la gente che parla ad altissima voce dentro, la musica sparata a palla, praticamente ovunque.
Siamo andati a Regent’s Park, per riposare le orecchie e respirare aria buona. Abbiamo incontrato londinesi a frotte, usciti a godersi il primo vero scorcio d’estate, e abbiamo camminato fino a consumarci i piedi, letteralmente.
All’uscita, prima di prendere il canale verso Camden, un barcarolo che trasportava turisti e cantava suonando la chitarra ci è passato sotto i piedi: era italiano anche lui.

Un memoriale per ricordarci che il terrorismo non è un’invenzione recente
Siamo andati a fare i turisti per bene: Piccadilly, Westminster e Buckingham Palace e il solito panino al St. James Park.
Abbiamo comprato un modellino del bus rosso a due piani.