to be me

Che lavoro faccio?

Dicembre 22, 2016

copywriter silvia azzolinaNo, non è una domanda retorica o il classico pretestuoso titolo che prelude ad un “ora vi spiego che lavoro faccio, casomai ve lo domandaste“. Si tratta piuttosto di una domanda genuina, autentica, che mi sto facendo io stessa in questo periodo e che, se siete dei liberi professionisti, ogni tanto sarà capitato anche a voi di farvi.

Forse vale la pensa di farsela a prescindere dal proprio status di lavoratori, tutto sommato, per fare l’inventario di ciò che sappiamo fare, prendere coscienza delle cose in cui siamo bravi e, infine, trovare il modo di fare rispettare le nostre competenze, soprattutto da noi stessi, che siamo spesso (soprattutto se siamo donne) i nostri peggiori fan.

Sono solita dire che di lavoro faccio la copywriter. È vero sì e no, perché il copywriter, per come l’ho conosciuto io, è una professione da agenzia pubblicitaria: costituisce la metà di un team che, insieme agli art director, si inventa non solo l’idea centrale di una campagna pubblicitaria, ma anche tutte le declinazioni che quell’idea avrà nei vari formati di destinazione: lo spot radiofonico, lo spot televisivo, quello cinematografico (che è più lungo) e quello sul web (che dovrebbe essere oltre che più corto, più creativo).

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storytelling, to be me

Una cosa che non vi ho mai raccontato

Novembre 23, 2016

Correva l’anno 2014.

Mi ero appena sollevata, per così dire, da un periodo nero e funesto di cui ho raccontato in un lungo post che non volevo nemmeno scrivere, e che invece poi ha scatenato una tale solidarietà da farmi pentire di essermelo tenuto per me tanto a lungo. A fasi alterne avevo frequentato diversi co-working (quello del cuore è rimasto ed è tuttora questo qui) e in quel periodo in particolare, mi appoggiavo ad una scrivania in uno spazio co-gestito da due mie amiche grafiche e da una piccola ma agguerrita casa di produzione video.

Il motivo per cui stavo lì, nonostante si trovasse dall’altra parte della città e fosse davvero complicato da raggiungere la mattina a causa del traffico, era che già da qualche mese avevo lanciato a Caterina e Lorenza una delle mie famose idee (ne partorisco in serie, solo alcune prendono vita, e in ogni caso mi ripropongo di riflettere di più su ognuna, in futuro). L’idea in questione prendeva le mosse da una mini collana di libri personalizzati che mia madre aveva scritto e illustrato per la Dodo, grazie a photoshop e ad una serie di arditi fotomontaggi. I libri piacevano moltissimo e, un po’ perché mi sembrava una cosa romantica da serie tv, un po’ perché non avevo niente di meglio da fare, ho cominciato a pensare che se esistevano quei video di folletti natalizi in cui si può mettere la propria faccia per farli ballare e cantare Happy Christmas a tutte le tue conoscenze, allora forse si poteva anche creare un sistema per cui quei libretti, da artigianali e completamente home made, diventassero a portata dell’utente internet medio, che avrebbe potuto infilare in illustrazioni concepite all’uopo le foto dei propri figli.

Lori e Cate, che sono persino più creative e con la testa per aria di me, si sono subito esaltate all’idea e così ci siamo mosse per capire se effettivamente si potesse realizzare e a quale prezzo.

È stato a un certo punto della primavera del 2014 che siamo incappate in due ingegneri informatici di belle speranze e freschi di laurea, con un pedigree che faceva ben sperare: erano della zona di Brescia, che, casomai non lo sapeste, rappresenta la Silicon Valley italiana (la concentrazione di studi informatici nella zona di Bergamo/Brescia e laghi eguaglia per numero quella delle imprese edilizie della medesima area geografica, se capite cosa intendo).

Il quadro da serie tv era completo: due amiche di provincia che si conoscono e frequentano dai tempi del liceo, un’ulteriore amica ex fighetta di Missori (la definizione è sua), ora hipster dell’Isola (questa invece è mia e non so se le piacerà…), due nerd neolaureati con la parlata di Fabio Volo e il senso dello stile di Steve Jobs (e non è un complimento), i finanziamenti provenienti da un fondo di famiglia che aveva rischiato di essere dilapidato a causa di una truffa ben orchestrata (questa è una storia che non racconterò) e 4 giovani e talentuosi illustratori, fatti emergere dal pantano di quella crisi che sembrava avere spazzato via la possibilità di guadagnarsi da vivere con l’arte e la creatività.

Il nome del progetto? i Dodini, perchè le storie erano nate per la Dodo, che chi frequenta questo blog ha sentito nominare più di una volta.

(Sospetto che molte delle cose che ho fatto nella vita io le abbia fatte più per il fascino del plot che mi prefiguravano, che per reale opportunità.)

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Illustrazione di Caterina Pinto, per il Dodino “Chi ha paura del mare?” – personalizzata con la foto della Dodo

 

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to be a citizen

È la fine del mondo per come lo conosciamo

Novembre 16, 2016

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Erano giorni di agosto caldi ma non soffocanti, avevo un lavoro in stand by, tempo da buttare e una città insolitamente silenziosa fuori dalla finestra. Per ragioni che non ricordo, sono finita a guardare un documentario sul rapimento e la liberazione di Jaycee Dugard, un’undicenne californiana rapita da un maniaco pedofilo e seriale, liberata dopo 18 anni di prigionia grazie ad un caso fortuito ed all’istinto di una poliziotta. Durante la sua prigionia Jaycee ha subito di tutto: stupri ripetuti, privazioni di ogni genere e ha dato alla luce due bambine, da sola, in una tenda montata in un cortile infestato di topi, grazie alle nozioni sul parto che aveva imparato in TV, e prima di avere compiuto 18 anni.
Complice la funzione “potrebbe interessarti anche” di You Tube, e travolta da una spirale di masochistica incredulità, ho guardato anche le storie analoghe di altre bambine, vittime di un destino innominabile, e miracolosamente restituite alla libertà e a quel che rimaneva della loro vita dopo anni di soprusi: Elisabeth Smart, Natasha Kampusch, Michelle Knight, Amanda Berry, Gina DeJesus.

Di queste storie agghiaccianti, il dettaglio che mi è rimasto più impresso è stato il fatto che per tutte ci fosse stata almeno un’occasione in cui avrebbero potuto scappare o farsi riconoscere (erano tutti casi diventati mediatici, le foto di quelle bambine erano state diffuse ovunque e così i loro nomi). Tutte a unc certo punto avevano visto uno spiraglio, una falla nel sistema, una possibilità di uscire dall’incubo e lo avevano ignorato.

La spiegazione che si evince dai documentari e dalle testimonianze è che a un certo punto, forse proprio a causa della giovane età delle vittime al momento del rapimento, quella prigionia era diventata la loro quotidianità, il mondo per come lo conoscevano. Un mondo di cui avevano appreso le regole e a cui si erano adattate. Dentro quella non-vita, l’unica che conoscessero, avevano trovato persino cose belle a cui attaccarsi: i fiori del giardino, un gatto, i jingle degli spot alla tv, i figli che avevano partorito in seguito alle violenze subite.

Tutte quelle ragazzine avevano imparato molto bene le regole da cui dipendeva la loro sopravvivenza e vi si erano adattate per uno spirito di auto conservazione che visto da fuori può sembrare innaturale, assurdo, una contraddizione in termini.
Jaycee, al momento della sua liberazione, come prima reazione aveva cercato disperatamente di coprire e poi di difendere il suo rapitore, cercando persino di depistare la polizia che ormai aveva capito che lei non poteva essere chi dichiarava. Aveva pianto, implorato gli agenti di non fargli del male perché lui era un “uomo buono”.

Martedì scorso gli Stati Uniti hanno votato per eleggere il loro Presidente e sappiamo tutti come è andata a finire. Sappiamo anche che il 43% delle americane ha votato per Trump nonostante il suo palese ed esibito sessismo e nonostante le accuse di molestie sessuali che gli sono state mosse pubblicamente da donne autorevoli e rispettabili.

Contro di loro (e contro tutti gli elettori di Trump, a onor del vero, ma forse quella delle donne è stata la posizione più dibattuta perché la più difficile da accettare) si è scagliato tutto quel mondo convinto di essere dalla parte giusta, e che probabilmente lo è, con un’acrimonia che però stride con i valori di cui si dichiara portatore.

Io credo che quelle donne abbiano votato Trump non perché non abbiano compreso il sessismo delle sue uscite, non perché non abbiano creduto alle accuse di molestie, ma perché semplicemente, nella loro esperienza di vita, sono giunte ad una pacifica conclusione: gli uomini sono fatti così.

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appunti

Due o tre cose sulla creatività che ho imparato ultimamente

Ottobre 31, 2016

Queste sono due o tre cose che ho imparato sulla creatività ultimamente, grazie a tre maestri (uno, due e tre) e questo potete considerarlo un “ripasso a carattere divulgativo”.

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Essere creativi vuol dire essere liberi.

Di fronte alla pagina bianca si può fare quel che si vuole: non ci sono limitazioni, non ci sono regole. L’unica regola è domandarsi sempre: «È bello? Funziona?». Quando un bambino colora una mucca di blu, non è bene correggerlo: lo sanno tutti. Allo stesso modo, se vi viene in mente una storia impossibile non dovreste censurarvi, dovreste anzi lasciarla libera di prendere forma.  Chi sia in grado di descrivere tutto il mondo intorno alla mucca blu in modo che questa diventi credibile, quello è un grande creativo. Non è interessante la verosimiglianza e non è nemmeno importante: basta che funzioni.

La creatività si alimenta di vita

Ed è alla vita che bisogna attingere per scrivere una storia. Ci sarà sempre un “amico segreto” dietro ad un personaggio che avrete messo sulla scena, solo voi saprete chi è ed è probabile che lo scopriate solo in corso d’opera, dopo averlo creato, quando vi sorprenderete a pensare: «Ma guarda questo come gli somiglia!“.

Se non conosci le dinamiche tra le persone, non scriverai un racconto.

Scriverai una descrizione di qualcosa che è successo e per giunta non davvero: quanto mai potrà essere interessante? Sono le dinamiche tra le persone a dare il senso a una storia; sono i personaggi al centro, non la trama. La domanda a cui risponde una storia che si fonda sulla trama è “come andrà a finire?“; quella a cui risponde la storia che si basa sull’ineluttabilità delle dinamiche tra le persone è “come ci arriverà?“.

L’ispirazione deve procedere sempre dal basso verso l’alto, mai viceversa.

Un film si potrà ispirare a un libro, una serie tv ad un film, un programma televisivo ad una serie tv. Più in basso non c’è niente. Anzi no: più in basso c’è il web, che è un pozzo di mediocrità senza tornelli all’ingresso, dove tutto finisce in un mucchio informe da cui è molto difficile pescare le cose che sono buone per davvero.

Quando si scrive si è nudi e vulnerabili.

Essere paraculi non è mai un’opzione, a meno di volere cadere nella mediocrità e nel luogo comune; a meno di stare dentro un filtro fasullo. Per inventare bisogna abbandonare se stessi e trovare l’oblio, dimenticare chi si è.

La tecnica senza il sentimento, genera mediocrità e luogo comune.

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È stato terribile diventare madre

Settembre 22, 2016

[Questo post è stato scelto da Treccani.it nella selezione “Premio Treccani Web, l’eccellenza del web italiano“]

Qualche tempo fa, durante una riunione di lavoro, si discuteva della necessità di trovare una chiave di comunicazione empatica verso le mamme in congedo di maternità, quelle che stanno vivendo i primi mesi del bambino e io sostenevo fosse necessario trovarne una che non passasse necessariamente per una mitizzazione di quel periodo che è sì, bellissimo, meraviglioso; ma che può essere davvero terribile: questa è la parola che mi è uscita, senza pensarla troppo.

Terribile? Ma che esagerazione!“, mi hanno detto.

Io non ho pensato di dire “terribile“, in effetti: ho molto presente tutta la bellezza e la magia, e quel sentimento misto di potenza e stupore che ti assale quando guardi tuo figlio di pochi giorni che ti dorme addosso a pugni chiusi. Però da qualche anfratto del subconscio mi è uscita proprio quella parola lì.

E in effetti, ad essere onesta, è proprio così che è stato: da un certo punto di vista, è stato terribile.

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storytelling

E a stranieri, in classe, come siamo messi?

Settembre 13, 2016

Scuola Elementare – Interno Giorno.
Primo giorno di scuola: presentazione delle classi prime.

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«E a stranieri, in ‘sta classe, come siamo messi?»

«Uhm… non saprei. Come li distinguo?»

«Ma, per esempio: quella bambina in prima fila, quella con gli occhi a mandorla. Non sarà mica italiana, no? Guarda, c’è sua madre lì dietro, anche lei con gli occhi a mandorla»

«Veramente quella è la mamma della bambina in terza fila, quella col cerchietto glitterato, se la stava sbaciucchiando in corridoio un attimo fa»

«Ah. Ma la bambina è… Non sembra… Insomma, non ha gli occhi a mandorla!»

«Avrà preso dal papà. Oppure quella non è sua madre, ma una psicopatica che va in giro a sbaciucchiare i bambini altrui. A proposito, dov’è nostro figlio? …ah eccolo. Guarda, che tenero… si è scelto un banco in prima fila!»

«Bhè, quella bambina là con le treccine: ultima fila, terzo banco dalla finestra. Quella è magrebina, è evidente»

«Però ha risposto all’appello quando hanno chiamato “Provenzano”, forse è solo siciliana»

«Oddio, sarà mica parente??»
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